Prosegue il percorso di «Conversazioni in vigna»: il format inaugurato lo scorso due anni fa da Andrea Moser insieme ad Anna Prandoni e Linkiesta Gastronomika con l’intendo di far conoscere le tradizioni vinicole e le aziende enologiche italiane, spostandosi di vigna in vigna e raccontando la vendemmia… durante la vendemmia!
Dopo la prima tappa dedicata alle bollicine della Franciacorta, il viaggio prosegue ad Asolo, un piccolo borgo sulle colline trevigiane, a cavallo tra Friuli e Venezia Giulia, nella zona del Prosecco di cui, con i suoi duemila ettari, rappresenta l’area più piccola, in cui da quarant’anni si produce un vino unico, riconosciuto dapprima come Doc, dal 2009 come Docg.
A farci compagnia per raccontarci le peculiarità di questo territorio e delle sue tradizioni vinicole c’è Alberto Serena, alla guida – insieme alla sorella Sarah e al padre Armando – di Montelvini, l’azienda che appartiene alla sua famiglia dal 1881 e oggi è a capo dell’omonimo Gruppo di cui fanno parte anche le cantine S.Osvaldo e MonVin.
Un’azienda che crede nel territorio e si impegna per valorizzarlo
Da più di quarant’anni, Montelvini si dedica alla produzione di vino con maestria, orgoglio e una passione trasmessa di padre in figlio, ma anche con buon senso e con la consapevolezza delle potenzialità espressive dell’Asolo, un territorio eclettico e ricco di storia, che deve la sua unicità tanto alla bellezza paesaggistica quanto alle tradizioni e ai valori portate avanti dalle persone che lo abitano. Non a caso il logo dell’azienda è rappresentato da una civetta che, come si legge sul sito, è un riferimento sia al nome dialettale dell’area in cui sorge la cantina (zuitere, ovvero terra delle civette) sia alla simbologia di questo animale, considerato emblema di saggezza, conoscenza e sensibilità: valori che la famiglia Serena ha fatto propri per promuovere il territorio nella sua totalità, cogliendone i migliori frutti, ma anche preservandolo e in qualche misura “addomesticandolo”, sempre nel rispetto della sua identità e suoi ritmi naturali.
La ricerca e la creazione dell’unicità
Montelvini è un’azienda che nasce e si sviluppa all’insegna di un forte legame con l’Asolo, distinguendosi per l’esplicito proposito a valorizzarne e preservarne le peculiarità, che si esprimono anche in una tradizione enologica fortemente identitaria e unica. «Fin da subito abbiamo affiancato la produzione vinicola all’attività comunicativa, grazie anche all’impegno del Consorzio dell’Asolo Montello – di cui mio padre è stato presidente per tre mandati – a raccontare il territorio e a far conoscere un vino dotato di particolari caratteristiche di mineralità e sapidità che lo contraddistinguono rispetto a qualsiasi altro Prosecco prodotto in pianura o in collina».
Il progetto “Vigneto ritrovato”
Questo impegno aziendale e familiare è alla base dell’ambizioso progetto di recupero e cura del paesaggio chiamato “Vitigno ritrovato”. Come spiega Alberto: «Si tratta di un progetto multidisciplinare, pensato per riportare in vita un antico vigneto situato nel centro di Asolo, ai piedi della cinquecentesca Villa De Mattia e quindi sottoposto a stringenti vincoli paesaggistici. Secondo le fonti storiche e documentarie (tra cui il Catasto Napoleonico del 1807-10 e la guida di Asolo curata da Vittor Luigi Paladini nel 1895), questo vigneto esisteva già ai tempi di Napoleone, ed è rimasto attivo fino alla metà del Novecento, per poi essere abbandonato».
Nel 2017 la famiglia Serena ha acquisito il terreno con l’obiettivo di far rivivere questo «giardino perduto» riportandolo all’antico splendore e ha avviato – con il supporto degli studiosi del CREA (ente affiliato al Ministero per le Politiche Agricole) – gli studi necessari per recuperare un clone di uva Glera (ISV VA8), con cui ripopolare il terreno e vinificare un Prosecco dalle caratteristiche eccezionali, che andasse ad affiancarsi alle cinque collezioni di vini prodotti dall’azienda, ognuno dotato di qualità uniche e riconoscibili.
Recuperare questo vitigno antico ha rappresentato una sfida dal punto di vista agronomico ed enologico, ma soprattutto ha significato far rivivere un pezzo di storia di Asolo. «Per farlo abbiamo mantenuto una decina delle viti ancora sane messe a dimora negli anni Sessanta, e abbiamo sostituito le altre (tra cui esemplari di Bianchetta e Malvasia) con esemplari ricavate da un clone di Glera, un vitigno del Prosecco tipico dell’asolano ma generalmente poco utilizzato a causa della resa più bassa e di una spiccata acidità più difficile da equilibrare».
Inoltre, «coerentemente con le consuetudini produttive del passato e con l’attenzione dell’azienda per la tutela della biodiversità (non solo in vigna ma anche in cantina), nel progetto di riqualificazione si è scelto di mantenere gli alberi da frutto già presenti nel vigneto e di piantare ciliegi e albicocchi che, pur rendendo più difficile la maturazione delle viti nelle zone più ombreggiate e la gestione pratica della vendemmia, contribuiscono a preservare l’integrità del suolo e dell’ambiente, rendendo il vigneto meno vulnerabile alle malattie».
L’attenzione per la sostenibilità a 360 gradi
D’altronde Montelvini è stata una delle prime aziende a dedicare una particolare attenzione al tema della sostenibilità, declinandola sia in chiave ambientale, sia in chiave sociale ed economica. Nel 2021 la cantina ha ricevuto la certificazione Equalitas ed è stata una delle otto aziende vitivinicole italiane a ottenere il Premio Industria Felix del Sole 24 Ore: «Si tratta di riconoscimenti che presuppongono non solo il rispetto di determinate pratiche applicate in vigneto e in cantina, ma anche una forma di gestione aziendale efficace, lungimirante e attenta alla sostenibilità economica e “umana” dei progetti che ruotano attorno alla produzione di vino e non possono prescindere dal legame con il paesaggio e con le persone che se ne prendono cura».
Per questo, oltre alla tutela e alla valorizzazione delle peculiarità del territorio, una parte fondamentale della vision e della mission di questa azienda fondata sulla famiglia consiste nel mantenere con tutti i suoi collaboratori (nonché con i clienti e con la comunità locale) un rapporto di “alleanza”, finalizzata alla creazione di un benessere condiviso e in continua crescita.
«La certificazione Equalitas in particolare non è un riconoscimento che viene assegnato una sola volta in via definitiva, ma richiede continui investimenti nelle pratiche usate per rispettare l’ambiente in vigna, il prodotto in cantina e il contesto in cui si opera» e questo rappresenta per la famiglia Serena un motivo di forte orgoglio, che si accompagna al costante impegno per migliorare la produzione senza scadere nei cliché che rinnegano l’impiego della tecnologia o demonizzano i vini non biologici. Anzi.
Contro una visione “romantica” della vinificazione
A proposito dei vini biologici, attualmente considerati aprioristicamente “salubri”, Alberto Serena esprime alcune riserve: «La certificazione bio presuppone di non trattare le vigne con prodotti di sintesi, eppure ammette paradossalmente l’uso del solfato di rame, un metallo pesante che viene applicato con interventi invasivi nel vigneto, si deposita nel terreno (impoverendolo) e rischia di trasferirsi al prodotto finale». Per questo al concetto di sostenibilità oggi gli enologi affiancano quello di durabilità, nella consapevolezza che, per far durare nel tempo una produzione di qualità, occorre mettere in campo il meglio delle tecniche disponibili, siano esse tradizionali, biologiche e biodinamiche, senza pregiudizi nei confronti delle une o delle altre.
Il Ceo di Montelvini estende lo stesso concetto al tema della meccanizzazione della viticoltura, sostenendo che anche a proposito delle tecniche di raccolta delle uve in fase di vendemmia occorre fare le debite distinzioni, e considerare le differenze climatiche e le particolari caratteristiche orografiche del terreno, spesso molto diverse anche tra aree vicine tra loro. «Se si sanno quali strumenti usare e in quale contesto, la tecnologia è un grande aiuto. Il nostro – spiega – è un vitigno piccolo e scosceso, in cui non sempre si riesce a entrare con le macchine, ma ci sono zone geografiche con vigneti molto ampi in cui conviene fare la vendemmia utilizzando la tecnologia, in modo da poter effettuare la raccolta dell’uva tutta in una volta – magari approfittando di finestre ristrette di meteo favorevole – e da riuscire a portarla in cantina in tempi molto brevi, affinché i cambi di temperatura e i naturali processi ossidativi non alterino la qualità del prodotto finale. Al tempo stesso, quando è necessario separare le partite di uva in base alle caratteristiche di ogni singolo vigneto, dopo la fase di raccolta meccanica può essere necessario procedere con la vendemmia manuale di piccoli lotti, in modo da ottenere da ognuno il livello ideale di acidità, maturazione fenolica e aromaticità».
Non ha quindi senso restare ancorati a una visione romantica della produzione artigianale di vino e mostrarsi diffidenti verso l’innovazione tecnica, soprattutto considerando i passi avanti fatti dai macchinari negli ultimi decenni. «Oggi le vendemmiatrici sono molto più evolute rispetto al passato, per esempio esistono macchine con selezionatori ottici che compiono un lavoro persino più preciso di quello compiuto con i tavoli di cernita manuale».
Ogni anno è «l’anno migliore»… ma la sfida è ancora da vincere
Un ritornello che si ripete ogni autunno (e di cui si legge anche sulle riviste di settore) è che quella in corso è la migliore vendemmia degli ultimi anni. Nel caso del “Vigneto ritrovato” la sfida per ottenere una buona annata è ancora da vincere, dal momento che negli scorsi due anni la vendemmia è stata compromessa dalla grandine e che anche questo 2024 non è stato semplice dal punto di vista meteorologico.
«In virtù della germogliazione molto anticipata rispetto al consueto, avevamo prospettato di raccogliere le uve già in agosto, non solo per quanto riguarda le varietà precoci come Pinot Grigio e Chardonnay ma anche a proposito della Glera. Poi, da aprile a inizio luglio ha continuato a piovere e le temperature si sono abbassate, rallentando la crescita organica dei grappoli e facendo sperare in una maturazione non troppo spinta. Infine tra luglio e agosto è arrivato il gran caldo – con temperature mai inferiori ai trenta gradi di giorno e venti gradi di notte –, che ha ulteriormente compromesso la maturazione. Solo a settembre, con il ritorno di un clima fresco e della pioggia, abbiamo potuto esprimerci considerando l’annata buona in termini di sanità delle uve, pur nella consapevolezza che l’inizio della fermentazione spontanea delle uve subito dopo la raccolta rischia di conferire al prodotto una maggiore acidità malica, che si aggira sui 3,50-3,60 Ph, tendendo verso il basico».
Ad oggi, la speranza è quella di riuscire a ottenere un prodotto eccellente, anche grazie a un protocollo di spumantizzazione basato su procedimenti che permettono di esaltare le caratteristiche già insite nei vini del territorio.
Uno sguardo al mercato
Al momento, dopo anni di grande espansione seguita al Covid, il mercato del Prosecco è tendenzialmente stabile a livello di numeri, ma sta risentendo di alcune dinamiche generali che riguardano il mondo degli champagne e degli spumanti. Prima fra tutte la tendenza a ridurre la percentuale di zucchero presente nelle bottiglie finali per rendere il prodotto più secco. «Asolo è stata la prima denominazione a inserire in produzione l’extra-Brut – cioè la versione più secca del Prosecco, con un residuo zuccherino pari o inferiore agli otto grammi per litro – per andare incontro ai nuovi orientamenti di gusto dei consumatori. Ciò non toglie che ancora oggi più del cinquanta per cento degli acquisti riguardi l’extra-Dry, in virtù della sua amabilità e freschezza». Una dicotomia degli acquisti che, secondo Alberto, permette di rilevare una differenziazione netta tra il consumo di massa rispetto a quello degli intenditori, che vanno in cerca di vini di carattere, capaci di esprimere le peculiarità di un territorio specifico e la cifra stilistica di chi lo produce.
Un altro fenomeno a cui il settore ha dovuto fare fronte è la moda dei vini rosé, che ha visto affermarsi l’abitudine a utilizzare una parte (quindici per cento) di Pinot Nero per produrre una versione rosata del Prosecco: «Assecondare questo trend ha rappresentato un’incognita, perché non c’era uno studio enologico a cui fare riferimento per prevedere quelle che sarebbero state le caratteristiche di questi prodotti. Eppure, nonostante lo scetticismo iniziale, l’esperimento è riuscito», tanto che tre rosati sono entrati a fare stabilmente parte delle collezioni firmate Montelvini: lo Spumante Rosé Brut (prodotto con prevalenza di uve precoci a bacca rossa, selezionate, raccolte, vinificate separatamente per esaltare al massimo le loro caratteristiche varietali e solo in una fase successiva unite in blend con un pigiato di uva bianca, ottenuto da pressatura soffice dei grappoli, immediatamente separato dalle bucce, illimpidito e fermentato alla temperatura controllata di 17 C° con l’ausilio di lieviti selezionati); il Prosecco Doc Rosé Brut e il Prosecco Doc Rosé Treviso Brut Millesimato (prodotti con uve 85 per cento Glera e 15 per cento Pinot Nero, anche in questo caso raccolte e vinificate separatamente e unite in blend solo in seguito).
Preferenze personali e obiettivi condivisi
Interrogato su quali siano i vini prediletti della sua produzione, Alberto indica due preferenze, di cui la prima è “FM333” Asolo Prosecco Superiore Docg Brut Millesimato, l’ultimo vino nato in azienda e il primo cru della denominazione Asolo Prosecco Superiore Docg. «Sono particolarmente legato a questo vino perché si tratta del primo Asolo da singolo vigneto (il Fontana Masorin situato sulla collina del Montello a 333 metri sul livello del mare, ndr) ottenuto grazie a una spumantizzazione partendo da mosto, con una sola fermentazione molto lenta e naturale, che dura circa sei mesi senza l’aggiunta di coadiuvanti e consente di dare vita a un vino originale, fragrante e inconfondibile».
Tuttavia quello di cui è particolarmente orgoglioso è “Il Brutto” Asolo Prosecco Superiore Docg Sui Lieviti, «Un vino “con il fondo”, naturale, non filtrato (per questo leggermente velato alla vista) che celebra la cultura trevigiana e di Asolo, unendola alla tradizione dello champagne, in quanto ottenuto con una rifermentazione di novanta giorni in bottiglia, senza sboccatura. Il risultato è un vino secco e ricco, con una piacevole acidità dovuta alla permanenza dei lieviti al suo interno, e con caratteristiche che cambiano nel tempo: è fresco e ricco dei sentori primari dell’uva all’inizio dell’estate, mentre assume un aroma di crosta di pane in autunno».
Preferenze personali a parte l’obiettivo di Montelvini è donare emozione alle persone, trasferendo in ogni bottiglia territorio, tradizione, storia, cura e orgoglio per le cose fatte bene, senza compromessi e sempre con l’impegno a realizzare qualcosa di unico, autentico e identitario. E ora… non resta che aspettare il 2025 per degustare i frutti di tutti questi valori applicati alla vendemmia!