Non so cosa decida di far vedere l’algoritmo a voi, ma nell’ultima settimana, qualunque cosa io apra, ci sono solo due notizie sulle quali mi saltano fuori articoli, video, commenti, ripescaggi d’archivio. Sono due notizie distanti – una ad Avignone e l’altra a New York – e apparentemente di diversissima ambientazione: una riguarda una signora francese che nessuno aveva mai sentito nominare, l’altra un musicista famosissimo.
Parrebbero avere in comune solo il riguardare reati sessuali: la signora sarebbe stata violentata per anni da sconosciuti convocati dal marito che organizzava questi rituali dopo averla drogata; il rapper invece è accusato di sfruttamento della prostituzione, traffico di esseri umani e altre meraviglie.
Ma la cosa che hanno in comune per me è che mi fanno pensare a un paragrafo che scrisse Edmondo Berselli nel 2003. «Il codice Cuccia, fondato sul mutismo, e il canone Andreotti, basato su un archivio minaccioso quanto impenetrabile, sono fuori corso. Chi detiene le news più esclusive ha un solo modo per dimostrare il proprio potere: rivelarle», scriveva, sopravvalutando i siti di pettegolezzi e la mutazione antropologica per cui prima i quartieri alti si tenevano per loro le cose che sapevano, e invece ora ci si faceva belli atteggiandosi a quelli che sanno.
Non era vero: siamo ancora come sono gli umani da millenni, chi parla non è mai chi sa, chi si vanta di sapere le cose non è mai chi le sa davvero. L’accusato – attualmente in carcere a Brooklyn, dopo che gli è stata negata la possibilità di uscire su cauzione ed è stato messo sotto osservazione perché si teme che si suicidi – di ogni possibile traffico illecito di carni altrui è Sean Combs, che divenne famoso come Puff Daddy, poi cambiò nome in P Diddy, e a quel punto la mia pazienza per star dietro ai capricci identitari si è esaurita e quindi in questo articolo lo chiameremo Combs.
La più illustre sua vittima sarebbe, secondo le ricostruzioni di questi giorni, Justin Bieber. Non c’è minuto che non esca un’intervista, una canzone, una frase in cui Bieber non faccia capire cos’ha passato. È talmente tutto esplicito che una falsa canzone costruita con l’intelligenza artificiale in cui a Bieber viene fatto cantare «Mi sono perso a una festa di Diddy, non sapevo che andasse così, avevo ceduto per una nuova Ferrari ma mi è costato più dell’anima» è sembrata per un attimo vera.
Ora, io non ho mai letto un’intervista di Bieber o ascoltato una sua canzone, perché sono vegliarda e impermeabile al presente, ma Bieber ha trent’anni ed è famoso da quando ne aveva quattordici. Sono sedici anni di fama nel secolo del presentismo, nel tempo in cui l’intero giornalismo mondiale smania per raccontarci i giovani. Siamo lì a rendere notiziabile ogni TikTok, ogni pettinatura, ogni flirt, poi quelli raccontano cose atroci e nessuno se ne accorge.
In questi giorni, con chiunque una parli del mondo dello spettacolo americano, l’insider ti dirà che tutti sapevano tutto, che ci sono un sacco di prove, che altro che Weinstein. Mi viene in mente il seguito di quel paragrafo di Berselli: «La differenza di classe fra gli happy few e gli outsiders, fra Cesare Romiti e il semplice lettore del Corriere della sera, è segnalata da un ritardo medio di quarantott’ore nella conoscenza delle chiacchiere principali». Magari, quarantott’ore.
Anche di Weinstein lo sapevano tutti da parecchio prima, e chi lo sapeva non decideva di scandalizzarsene, al massimo di approfittarsene. A ottobre del 2017 twittai queste due righe: «Sogno un pezzo su Weinstein d’una sola riga: quello sarà un vecchio porco, ma voi gliela tiravate con la fionda, finché pensavate servisse». Una torma d’invasate guidate da Asia Argento (forse vi ricordate del quarto d’ora in cui Asia Argento fu guida morale della nazione) chiese il mio licenziamento un po’ da ovunque e, due settimane dopo, che il New York Times ritirasse dalle edicole la copia che conteneva un mio editoriale sul MeToo. Perché non era vero? Direi: perché tutto smette d’essere vero nel momento in cui parte il fischio di Pavlov che dice all’opinione pubblica «questa cosa che sapevamo noi happy few finora, e non facevamo un plissé, è una cosa di cui ora dovete tutti indignarvi».
Dopo, tutti sono disposti a dire tutto. A luglio, il New York Times magazine ha pubblicato i ricordi d’una tizia che nel 1997 dirigeva una rivista musicale, aveva messo Puff Daddy in copertina, quello voleva l’approvazione della foto che quel giornale non era solito concedere, e al telefono le aveva detto che se non gli faceva vedere la copertina avrebbero trovato il di lei cadavere in un bagagliaio. Ognuno ha i suoi tempi per raccontare le cose, la signora l’ha scritto per la prima volta due anni fa nel suo memoir.
Sean Combs è stato arrestato lunedì 16. Il 19, Oprah Winfrey ha intervistato Kamala Harris, con parecchi ospiti famosi. È intervenuta anche Jennifer Lopez, e improvvisamente i commenti non erano sulla sua separazione da Ben Affleck, ma nell’ordine di: non si vergogna, lei che è stata con Puff Daddy. Ma era venticinque anni fa. Se davvero la questione è così ampia e antica, il lavoro di mandare Combs in galera non l’ha fatto chi in questi decenni lo doveva fare, e avrebbe invece dovuto farlo Jennifer Lopez?
La storia della signora francese è se possibile più atroce. Il marito che la droga senza che lei lo sappia, lei che è sempre confusa anche da sveglia e gli amici si convincono abbia l’alzheimer, decine di uomini che si accoppiano con una addormentata, vai a sapere se perché sono degli stupratori o perché così stolidi da esser davvero convinti che la perversione sessuale di lei sia fingere di dormire mentre un altro la scopa e il marito guarda (una delle mogli degli accusati ha definito il marito «vagamente libertino», che mi sembra il punto in cui la tragedia diviene commedia).
La vittima ha raccontato che certi, vedendoli in tribunale, ha scoperto erano vicini, negozianti da cui andava, gente che incontrava tutti i giorni ignara che quelli di notte la stuprassero. È, come spesso sono i fatti della realtà, una storia che trascende ogni verosimiglianza. È un’altra storia in cui molti sapevano e nessuno diceva niente.
Era il marito, diamine. Di fronte alle accuse, Sean Combs ha anche lui giocato la carta del padre di famiglia. Può un uomo che vuol bene ai suoi figli essere un mostro? Direi di sì: i figli li fanno anche i gatti. (La figlia del francese ha testimoniato che teme di essere anche lei stata violentata dal padre nel sonno. Ma come: un padre di famiglia, quindi una brava persona).
Ora, che ad Avignone c’è un processo in corso le cui cronache vengono pubblicate in tutto il mondo e come sempre tutti abbiamo un’opinione, tutti s’interrogano sulla psicologia del marito, che però mi sembra meno interessante di quella della moglie. Quanto dev’essere possente il tuo rimosso per non farti accorgere che sei sposata con uno capace d’una roba del genere? Più o meno efficiente del rimosso di chi per due volte non s’accorge della gravidanza d’una ragazza che ha in casa, per stare a un’altra storia di cronaca di questi giorni?
Berselli parlava di «permeabilità dei ruoli fra chi scrive e chi legge, tipico schema delle comunità pettegole, dove tutti sparlano di tutti», ma forse in comune, chi scrive e chi legge, hanno ormai il non accorgersi di niente finché non è troppo tardi, finché la cosa di cui ti saresti dovuto accorgere non è trending topic. Di niente. Neanche di quel che succede nel tuo quartiere, neanche di quel che le vittime hanno raccontato in mille interviste, neanche di tutto quel che, dopo, ci avventuriamo a commentare in tono blasé: beh, ma si sapeva.