«Oggi un candidato vicepresidente non attaccherebbe mai una donna che fa un figlio, quindi, come si dice, il mio compito è esaurito. Miao». Avevo vent’anni quando mi alzavo alle sei di mattina per vedere su Rete4 Candice Bergen nel ruolo di Murphy Brown. Ne ho quasi cinquantadue quando Candice Bergen sale sul palco degli Emmy a fare una battuta didascalica ma perfetta.
Quando fa ciò che il mondo – cioè: io – si aspetta da lei: ricordare al mondo – cioè: agli altri – che molto prima di J. D. Vance e delle gattare senza figli ci fu Dan Quayle che riteneva che un personaggio di fantasia che decideva di crescere un figlio senza padre costituisse un esempio che avrebbe minato le fondamenta della famiglia americana.
Quayle che pensava le opere di finzione fossero un cattivo esempio non faceva impressione quanto avrebbe dovuto: erano anni in cui i politici erano preoccupati per l’esempio costituito dai consumi culturali almeno quanto oggi lo sono i commentatori dell’internet. Mica solo a destra: Tipper Gore, indignata perché «milioni di americani comprano “Purple rain” senza sapere cosa contenga!» (puntesclamativo suo, nei penzierini che scrisse per metterci in guardia: dentro a quel disco c’era una che si masturbava, cosa pensava d’essere, Albachiara?), volle e ottenne l’etichetta che ricorderete su certi cd, quella bianca e nera con scritto «parental advisory» (che potremmo tradurre con: attenzione, genitori, contiene zozzerie diseducative).
Non era insolito vedere politici americani fare la morale al mondo dello spettacolo (non che in Italia fossimo messi meglio, tra politici che non volevano la tv a colori e politici che si offendevano perché Vianello faceva cadere dalla sedia Tognazzi). Né lo era che le scemenze avessero come ragione ufficiale «dobbiamo proteggere i nostri impressionabili pargoli». Era strano per una ragione che aveva a che fare col reale e il razionale: Murphy Brown non esisteva davvero.
Tre decenni più tardi, tre decenni di regressione in cui le relazioni parasociali hanno smesso d’essere affare di dodicenni che volevano sposare Simon LeBon e hanno cominciato a essere affare di adulti che ritengono dirimenti i consigli elettorali di Taylor Swift, un secolo di stupidità più tardi è tutto normale. Non nel senso di: raccomandabile; nel senso di: ordinario.
Normale che per settimane sui social le ragazze si siano agitate perché Taylor non diceva che avrebbe votato Kamala e abbracciava pure una che aveva messo like a Trump, non è più quella che conosco (cioè: cui do dei soldi e che non sa ch’io esista), ci ha tradite, i soldi le hanno dato alla testa (fino a sei mesi fa era in effetti povera).
Normale che in seguito a questo benedetto post in cui, con meno umorismo di Candice Bergen, miagola il proprio appoggio alla candidata democratica, adulti seriamente conteggino quanti voti può spostare, e non come segno della sopravvenuta demenza del mondo (siamo disposti a votare quel che ci dice di votare una che di mestiere sta sul palcoscenico), ma come buona notizia. Normale che il candidato repubblicano scriva sui social «Odio Taylor Swift», scusate se mi ripeto: una cantante nonché una che non ha mai incontrato. Te lo vedi Reagan che quarant’anni fa posta «odio gli Wham!», ha scritto qualcuno, e io non so bene se pensare «Reagan sì che era una persona seria, mica questi qua», o immaginarmi un mondo coi social allora, e quindi già rimbecillito allora.
Ieri mi è apparso un tweet, o come si chiamano ora, di una tizia con mansioni intellettuali, la quale commentava un meme, qualunque cosa sia, di matrice repubblicana. Era un fotogramma dei “Simpson” al quale, come sui social vediamo accadere continuamente con Mafalda o con Lucy Van Pelt, qualcuno aveva cambiato il testo.
C’era Lisa Simpson davanti a uno schermo, e su quello schermo la propaganda trumpiana aveva scritto «Le donne sono nate per avere bambini, non gatti» (di come le ovvietà siano diventate propaganda nell’epoca in cui anche dire che le donne non hanno il cazzo è considerato fascismo parliamo un’altra volta).
La tizia italiana commentava col piglio che si riserva al ristabilire la verità sulla sfericità della Terra, sull’esistenza dei campi di concentramento, su Ustica: «Lisa Simpson non avrebbe detto una cazzata così neanche pagata, e già che siamo qui ricordiamo anche che Tolkien era antifascista, e Che Guevara se avesse visto uno di Casa Pound gli avrebbe sputato. Ladri e sfigati». (Citazione non letterale: ho aggiunto punteggiatura e maiuscole).
Ora, io sono lieta che i giovani d’oggi – cioè: quelli che hanno meno di ottant’anni nel secolo in cui s’invecchia senza crescere – rinneghino il concetto stesso di meme, che considero uno dei grandi mali del presente, rivoltandosi contro la decontestualizzazione delle immagini e considerandola furto. Ne sono lieta perché mi va bene persino che una sensibilità etica sopperisca al carente senso estetico, se il fine da ottenere è l’abolizione dello spirito di patata.
Sono però un po’ preoccupata che le relazioni parasociali siano passate dal farci dire dai personaggi di fantasia in che modo figliare, al farci dire dalla gente famosa come votare, giù fino al difendere le appartenenze ideologiche dei personaggi disegnati. Almeno Murphy Brown era fatta di carne, e ormai l’asticella è così bassa che io sono disposta a farmi bastare quello per ritenere Dan Quayle meno scemo di noialtri di questo secolo, di questo secolo in cui un rifacimento di “Sposerò Simon LeBon” potrebbe credibilmente avere una quarantenne per protagonista.