Fuori moda Il tempo dello Zibibbo secco

Dopo averne raccontato le origini, riprendiamo il nostro focus su uno dei vini più affascinanti del Mediterraneo scoprendo come sta affrontando nel presente la divagante avversione per il gusto dolce

Foto di Giorgio Fogliani

A un certo punto della storia enologica, i vini dolci sono entrati in crisi e non sembrano destinati a uscirne tanto presto. Non ci sono molti altri modi di dirlo, è un processo inarrestabile che investe al tempo stesso lo zucchero, l’alcol e il concetto di peso/leggerezza.

Per quanto riguarda lo zucchero, da circa un secolo i palati europei hanno iniziato a cercare vini sempre più secchi. All’inizio del Novecento, per esempio, gli champagne più diffusi erano quelli dolci o molto dolci (in quel caso si trattava di zucchero aggiunto, una pratica che oggi ci fa trasalire), e nessuno avrebbe mai creduto che nel ventunesimo secolo si potessero sentire frasi come: «No, extra-brut no, io bevo solo pas dosé», con le versioni doux e demi-secridotte a pezzi d’antiquariato (extra-brut e pas dosé, o brut nature, sono rispettivamente il secondo e il primo grado di “secchezza” possibili per uno spumante; demi-sec e doux sono invece i due più zuccherini).

Oggi, sempre di più, lo zucchero è visto come dannoso per la salute (in parte giustamente, ma non senza un po’ di manicheismo) e in generale un alimento zuccherino viene percepito come poco puro, come mostra l’escalation di cioccolati con percentuali di cacao sempre più alte o la corsa ai dolcificanti alternativi che permettano di scrivere l’agognato «senza zucchero».

Un discorso simile si può fare sull’alcol, anche se il fenomeno è più recente. I consumatori, specie i più giovani, sono sempre più sensibili rispetto ai danni alla salute causati dalle bevande alcoliche, e nel mondo del vino ne hanno fatto le spese prima i vini dolci (passiti e fortificati) e oggi, a quanto pare, stanno iniziando a patire dello stesso male anche i vini rossi strutturati.

Più in generale, il gusto contemporaneo insegue sempre di più un’idea di leggerezza e di purezza, più o meno autentiche, magari associate a concetti (a volte mitizzati) come l’acidità, la mineralità e la salinità. In un contesto come questo, poche cose sembrano uncool come un vino passito, che è dolce, mediamente più alcolico della media e la cui densità sembra andare nella direzione opposta alle parole d’ordine che abbiamo appena visto. E pazienza se, nei migliori vini dolci, l’acidità e la salinità giocano un ruolo in realtà importantissimo: sono sfumature, purtroppo, difficili da cogliere.

Insomma, per quanto ci stracciamo le vesti, tutti i vini dolci sono in sofferenza, dal Recioto al Banyuls, dallo Sciacchetrà al Sauternes, che pure è forse il più famoso al mondo. Le denominazioni che potevano virare su vini secchi già esistenti lo hanno fatto (come la Valpolicella, dove il Recioto è in calo da decenni in favore di Valpolicella, Ripasso e Amarone), altre hanno introdotto le versioni secche ex novo o quasi: a Caluso, per esempio, i tipi secco e spumante hanno ampiamente scalzato il tradizionale Erbaluce passito; nella Doc Pantelleria, invece, fanno più fatica a ingranare, forse per un legame intrinseco, quasi atavico, tra lo Zibibbo e l’idea di dolcezza.

A qualcuno piace secco
In realtà, al di là del caso particolare della Doc pantesca, versioni secche di Zibibbo (l’uva di cui abbiamo iniziato il racconto qui) esistono ormai da tempo, sia a Pantelleria sia nel resto della Sicilia sia altrove, ma il povero enotecario o sommelier che le proponga a un consumatore medio si sentirà spesso rispondere qualcosa come «Ah no, grazie, vorrei un bianco secco».

È un bias che riguarda in una certa misura tutti i vitigni aromatici (come gli altri moscati o le malvasie), per due ragioni: la prima è che esiste una radicata tradizione nel vinificare come dolci le uve aromatiche (sono detti aromatici alcuni vitigni molto profumati come i moscati, alcune malvasie, il Gewürztraminer e altri, in cui l’aromaticità dell’uva si conserva quasi invariata nel vino; nella maggior parte degli altri casi, invece, i profumi dei vini non sono direttamente ricollegabili a quelli delle uve di provenienza, ma sono influenzati in misura maggiore dai processi fermentativi che trasformano l’uva in vino, ndr). La seconda è che è l’aromaticità stessa dei moscati o delle malvasie a evocare i concetti di maturità e dolcezza, con una sovrapposizione tra percezioni olfattive e gustative. Tanto è vero che alcuni consumatori confondono i concetti di fruttato e dolce, per esempio chiedendo «un vino non fruttato» intendendo un vino secco, o «un vino non dolce» pensando a un vino poco profumato.

Fatto sta che la vinificazione secca dello Zibibbo è un’opzione sempre più battuta: una volta superato il malinteso sulla dolcezza, la combinazione tra aromaticità intensa e asciuttezza gustativa è spesso vincente sul piano commerciale, anche se la vinificazione degli aromatici secchi è delicata, perché è facile che lasci una sensazione amara. A Pantelleria ne è stato pioniere Marco De Bartoli, vignaiolo visionario in molte delle sue scelte: la prima edizione del suo “Pietranera” risale al 1989, una vita fa.

Foto di Giorgio Fogliani

Un secondo momento di svolta si è avuto a cavallo del 2000, con l’esplosione del movimento dei vini naturali (la definizione non piace a nessuno, ma la usano tutti), che tra le altre cose ha svecchiato l’immagine e la narrazione del vino e del vignaiolo, introducendo una connotazione di ribellismo che vent’anni dopo è diventata mainstream.

Il movimento ha anche rispolverato la tecnica, dimenticata da anni, della macerazione sulle bucce (i cosiddetti orange): per lo Zibibbo, tra i primi interpreti figura Nino Barraco a Marsala (ci torneremo). Frattanto a Pantelleria faceva parlare di sé il milanese Gabrio Bini: il suo vino, “Serragghia”, è diventato ben presto una piccola icona, anche per la vinificazione in anfora (ai tempi era una novità), lo stile estremo e in ultimo il prezzo molto elevato. Tra gli altri Zibibbo macerati: “Integer” di Marco De Bartoli (prima annata 2006) e, più di recente “L’Orange” di Abbazia San Giorgio, “A Tardiata” de I giardini di Tanit e i vini di Tanca Nica, uno dei progetti più recenti ma anche più interessanti.

Alla macerazione sulle bucce si rimprovera a volte di appiattire e standardizzare i vini – un’accusa non fuori luogo, ma che vale per qualsiasi tecnica quando la tecnica è troppo esibita – o di conferire loro una certa rusticità. Nel caso delle uve aromatiche, però, le bucce danno a volte anche una tridimensionalità e una complessità che il classico vino aromatico secco vinificato in bianco non ha, e ricalibrano anche l’amaro a cui accennavamo prima.

Nelle versioni più semplici e sbarazzine, gli Zibibbo macerati strizzano consapevolmente l’occhio a un’estetica che quasi si allontana dal vino e va verso il succo di frutta, complici il colore giallo-arancio, l’eventuale torbidità dei vini non filtrati e i profumi di pompelmo, fiori, zenzero e a volte persino luppolo che lo Zibibbo porta con sé.

Il fenomeno, d’altra parte, è tutt’altro che siciliano e non riguarda solo lo Zibibbo, ma le uve aromatiche in genere: Ezio Cerruti, produttore piemontese di un apprezzato passito da Moscato bianco (Sol), ha progressivamente introdotto prima una versione secca, poi una frizzante. Oltreoceano, il cileno Manuel Moraga Gutiérrez (Cacique Maravilla) imbottiglia un Moscatel de Alejandría che fa esplicito riferimento fin dal nome alla tecnica macerativa (vino naranja, vino arancione).

Ma il luogo in cui questo fenomeno è più rilevante è probabilmente la regione del Languedoc-Roussillon, nel Sud della Francia, che si è ritrovata alla fine del Novecento con centinaia e centinaia di ettari piantati a Moscato (specialmente bianco, ma anche d’Alessandria) destinati a vini dolci fortificati, blasonati ma che nessuno beveva più, come i Muscat-de-Frontignan, de-Rivesaltes e altri.

Inventarsi delle versioni secche, più o meno macerate, magari con un’etichetta carina e un nome accattivante, è stato l’unico modo per i vignaioli di salvare questi vigneti, e pazienza se bisognava rinunciare alla denominazione d’origine e imbottigliarli come vin-de-France o Igp: è il caso di aziende storiche come Danjou-Banessy, con il loro “Supernova”, Gauby (“La Jasse”), Matassa (“Cuvée Alexandria”), Les Enfants Sauvages (“Bouche du soleil”) o più recenti, come L’Étranger (“La belle verte”) o il Domaine Vento dell’italiano Alessandro Del Grosso (“Bonbonne”, prima annata 2023).

Qualcuno cerca anche la strada delle bollicine: lo Zibibbo non ha probabilmente l’acidità per un grande metodo classico (almeno fino a prova contraria), ma un frizzante col fondo (quelli che in Francia chiamano pét nat, abbreviazione di pétillant naturel) va nella stessa direzione vista prima: ringiovanire, rendere pop e in fin dei conti far circolare il vino.

Lo Zibibbo, inoltre, è piuttosto produttivo sui racemi o femminelle, che sono dei grappoli “secondari” che solitamente non arrivano in tempo a maturazione e si eliminano, ma in questo vitigno sono spesso sfruttati per i vini secchi (frizzanti e non) in virtù della loro maggiore acidità.

Foto di Giorgio Fogliani

Un’altra strategia è usare lo Zibibbo (o il Moscato) in taglio, per dare un kick olfattivo a un vino altrimenti più neutro, come per esempio il rosato “Le rouge et le blanc” di Cyril Fhal (altro noto produttore del Roussillon), in cui la freschezza del Moscato bianco tempera l’opulenza del Grenache.

Ma non è detto poi che la presenza dell’uva aromatica venga necessariamente dichiarata… Del resto è perfettamente legale, in molte denominazioni italiane e francesi, usare una piccola quota di un vitigno senza esplicitarlo in etichetta. Per esempio, un Sicilia Doc Grillo può legittimamente contenere fino al quindici per cento di un’altra uva senza renderlo noto. Solo che il quindici per cento di Zibibbo in una vasca di Grillo (o di un’altra uva bianca neutra) può alterarne considerevolmente lo spettro olfattivo: il consumatore ne uscirà confuso, pensando, in buona fede, che quei sentori così spiccati siano da attribuire all’uva dichiarata in etichetta (il Grillo, nel nostro esempio, ma vale per qualsiasi bianco), formandosi così un’opinione distorta.

Lo Zibibbo cresce
Per tutte queste ragioni, nonostante i tempi non fausti per i vini dolci, lo Zibibbo come uva, in Sicilia, è in costante crescita. Dai 1.413 ettari del 2000 la sua presenza è raddoppiata (2.825 nel 2021!), pur occupando solo il 2,8 per cento del vigneto siciliano (qui e altrove, dati Istituto Regionale del Vino e dell’Olio – Irvo). Di questi quasi tremila ettari, Pantelleria ne conta meno di cinquecento, i restanti sono nella Sicilia “continentale”, con l’eccezione di due ettari a Ustica e un ettaro, di recente impianto, sulla lontana e selvaggia isola di Linosa, frutto di un progetto di cooperazione italo-maltese e che darà, una volta vinificato, lo Zibibbo più meridionale d’Italia.

Che la crescita sia da attribuire soprattutto alle versioni secche sembra confermato dai dati: da quando nel 2016 è stata introdotta la Doc Sicilia Zibibbo (dedicata sostanzialmente ai vini secchi), gli ettolitri confezionati sono passati da 1.405 a 4.701 (2023); ma la parte del leone la fa l’Igp Terre Siciliane Zibibbo, che nel 2023 ha raggiunto quasi diciottomila ettolitri, più o meno equamente divisi tra versioni secche e dolci/liquorose: queste ultime, nonostante la crisi del settore, restano un prodotto considerato tradizionale e ricercato dai turisti, anche se spesso si tratta di produzioni industriali di scarso interesse qualitativo.

Questa è la seconda parte del nostro viaggio nel mondo dello Zibibbo: seguici per scoprire l’ultima parte della storia. Se vuoi leggere la prima puntata, la trovi qui.

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