Trilogia di un’uvaTutti i segreti dello Zibibbo

Partiamo dalle origini per conoscere un vino che parla di Mediterraneo e di Oriente

Foto di Giorgio Fogliani

In principio è sempre l’uva, e lo Zibibbo è un’uva con mille cose da raccontare, a partire dal suo nome irresistibile, al tempo stesso esotico e familiare. Zibibbo dovrebbe derivare dall’arabo zabīb, che significa uva passa (ci torniamo), oppure, dice qualcuno, dal Cap Zebib, località tunisina protesa verso la Sicilia. All’Africa del Nord sembra ricondurlo anche il suo principale soprannome, Moscato d’Alessandria, ma secondo gli ampelografi è improbabile che venga dall’Egitto, e la sua origine dovrebbe essere invece siciliana o greca.

Lo Zibibbo appartiene alla famiglia dei Moscati: è un incrocio naturale tra il più noto Moscato Bianco (lo stesso diffuso nell’Astigiano) e un’oscura uva rossa da tavola sarda detta axina de tres bias. Dal Moscato Bianco lo distinguono un’aromaticità ancora più intensa e spiccata (fiori d’arancio, agrumi, macchia mediterranea, zenzero, litchi), una maggiore dolcezza, minore acidità e migliore adattabilità ai climi aridi.

Lo Zibibbo è un’uva antica – la prima attestazione è del 1696, in Sicilia, quindi è verosimilmente anteriore – e migrante: lo troviamo in Calabria, in Grecia, nel Sud della Francia e nella penisola iberica, da cui è passato in America, nonché in Turchia e Israele. Ma in nessuno di questi luoghi si usa nulla di simile al nome Zibibbo, preferendogli variazioni sul tema Moscato: Muscat d’Alexandrie, Moscatel de Setúbal, Moscatel de Málaga. E in nessun altro luogo lo Zibibbo ha trovato casa come in Sicilia, e in Sicilia da nessuna parte come a Pantelleria.

Pantelleria, il passito, l’uva passa
La connessione tra lo Zibibbo e Pantelleria è proverbiale. Il passito-di-Pantelleria, regalo di Natale un po’ fané, «vino da meditazione» secondo una definizione acuta ma abusata, è un’istituzione, e anche i non addetti ai lavori sanno, generalmente, che si tratta di Zibibbo.

Qui va aperta una parentesi a ricordare che il disciplinare della Doc Pantelleria ammette la fuorviante dicitura «Moscato»: per assurdo che possa sembrare, per fare vino sull’isola si deve usare lo Zibibbo (e non il Moscato bianco o il Moscato Giallo) ma si può etichettarlo come Moscato, nonostante si tratti di uve diverse! Ma al legislatore, si sa, piace ogni tanto complicare sottilmente le cose.

La Doc pantesca si declina in ben otto versioni: Moscato di Pantelleria, passito di Pantelleria, Pantelleria-Moscato spumante, Pantelleria-Moscato dorato, Pantelleria-Moscato liquoroso, Pantelleria-passito liquoroso, Pantelleria-Zibibbo dolce, Pantelleria-bianco, anche frizzante (solo quest’ultima ammette vitigni diversi dallo Zibibbo fino a un massimo del 15 per cento). Nei fatti, il 65 per cento del vino imbottigliato sull’isola nel 2021 era Pantelleria-passito liquoroso, il 16 per cento Passito di Pantelleria, l’8 per cento Pantelleria-Moscato liquoroso, il 7 per cento Pantelleria bianco (dati da Istituto Regionale del Vino e dell’Olio, Irvo, e Disciplinare di produzione dei vini a Denominazione d’origine controllata “Pantelleria”).

La dicitura liquoroso implica l’aggiunta di alcol di origine viticola: una pratica ufficialmente volta a stabilizzare il vino ma in grado al tempo stesso di mascherarne i difetti, di consentire l’impiego di uve meno mature (aumentando quindi la resa) e in ultima analisi figlia del tempo in cui, diversi decenni fa, in una Sicilia che produceva troppo vino rispetto alla domanda, iniziarono a fiorire le distillerie. Di alcol a disposizione, insomma, ce n’era.

In ogni caso, il passito di Zibibbo pantesco come fenomeno commerciale è cosa relativamente recente. Prima degli anni Settanta sull’isola lo Zibibbo era essenzialmente impiegato alla produzione di uva passa, proprio come ci ricorda l’etimologia del nome. Per inciso, lo Zibibbo è un’uva passa eccezionale, ha una dolcezza densa e aromatica che richiama i datteri, completamente diversa dall’uvetta a cui siamo abituati.

Senonché, quest’uva passa di Zibibbo, per secoli esportata come una delizia regale, ha due difetti che la rendono immediatamente obsoleta nell’Occidente del boom economico: il primo sono i costi di produzione alti, perché a Pantelleria la vite si coltiva con una forma particolare di alberello (patrimonio Unesco dal 2014), semi-interrato in splendide conche a forma di parabola per proteggerlo dal vento e trattenere l’umidità, dunque non meccanizzabile.

Foto di Giorgio Fogliani

Il secondo è che lo Zibibbo… ha i semi! Semi masticabili, quasi insapori, nemmeno amari, oseremmo dire un contraltare piacevolmente croccante a spezzare la dolcezza del frutto. Ma nel momento in cui sul mercato si presentano alternative più economiche e senza quell’imperfezione così mediterranea, così vieux monde, il dado è tratto: «Negli anni Sessanta si diceva: ammazzano più bambini i semi dello Zibibbo che i comunisti», ha detto una volta Salvatore Ferrandes, uno dei migliori viticoltori dell’isola. Una battuta che, da sola, racconta al tempo stesso un clima politico infuocato e una società dei consumi che iniziava a manifestare paturnie deliranti, come quella che i bambini potessero soffocarsi con i semi dell’uva passa.

Marsala e Pantelleria
Ecco allora che tra gli anni Settanta e Ottanta Pantelleria si riconverte al vino da uve appassite, sulla spinta di capitani di ventura arrivati da Marsala che intuiscono il potenziale del passito in un momento storico in cui sta iniziando a diffondersi la cultura del vino in bottiglia.

Il primo a sbarcare è un giovane Marco De Bartoli, seguono grandi famiglie come Rallo (che fonderà Donnafugata) e Pellegrino. Queste ultime restano a tutt’oggi le due aziende con la maggior forza commerciale nell’isola, sia con vigneti di proprietà sia (soprattutto) come acquirenti d’uva dei vignaioli panteschi. Se il passito di Donnafugata “Ben Ryé” è un vino a suo modo iconico, Pellegrino sembra occupare una fascia di mercato più vicina alla grande distribuzione.

L’azienda di Marco De Bartoli ha costruito sull’isola una sua piccola succursale, affidata, dopo la morte del patriarca, a uno dei tre figli, Sebastiano, che la segue in prima persona firmando vini autorevoli (due secchi e due dolci).

Non mancano, naturalmente, produttori panteschi indipendenti: Ferrandes, che firma alcuni tra i passiti più elettrizzanti, e Murana sono stati i battistrada, mentre tra i più recenti brillano Francesco Ferreri con la sua Tanca Nica e Giuseppe Maccotta con I Giardini di Tanit.

Il passito di Pantelleria, però, non è certo un’invenzione marsalese: un vino da uve appassite esisteva già sull’isola, anche se limitato a una dimensione familiare/artigianale, e si chiamava passulata. Si faceva – nei migliori casi si fa ancora – vinificando assieme uve a diversi stadi d’appassimento: si comincia con un pied de cuve (uno starter) fatto con quelle più fresche, e vi si aggiungono man mano le uve sempre più appassite e quindi cariche di zucchero.

È un procedimento che inizia in agosto, quando si raccolgono le uve più precoci, si adagiano negli «scacchi», le zone vuote tra una vite e l’altra, e là si lasciano appassire, girandole e rigirandole periodicamente, al sole più forte e col calore della terra; e che dura fino a ottobre, tanto ampia è la forbice di maturazione tra le varie zone dell’isola.

Marsala, foto di Giorgio Fogliani

Il tenore zuccherino è tale che la fermentazione è lunghissima, può subire arresti e prendere perigliose deviazioni, e termina di solito a dicembre/gennaio, ma può durare anche più a lungo. Non proprio un processo comodo per chi voglia ottenere un passito industriale, affidabile e possibilmente economico, che infatti opta per un modo di procedere assai più rapido: un vino bianco base al cui interno si fa macerare dell’uva passa (appassita non più necessariamente in vigna e al sole, ma sotto tunnel di plastica o in locali condizionati): così, l’uva da far appassire è minore, e le rese totali sono complessivamente più alte.

In un certo senso, a Pantelleria i marsalesi hanno fatto in piccolo ciò che gli inglesi avevano fatto a Marsala dalla fine del diciottesimo secolo: prendere un vino ancestrale, familiare, e trasformarlo in un prodotto diffuso e famoso. Una commodity.

Ma nei migliori passiti di Pantelleria si sente ancora la complessità di un grande vino mediterraneo, che nonostante i tenori molto alti di zucchero, nonostante la concentrazione elevatissima della materia, non si esaurisce nella dolcezza, ma naviga tra sensazioni speziate e orientali, ruvidezze gustative e una sapidità sorprendente.

Questa è la prima puntata dell’approfondimento sullo Zibibbo a cura di Giorgio Fogliani. La seconda e terza parte seguiranno presto sempre qui sul nostro sito, dossier Enologika

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