Io penso negativo L’estate del 1992, lo scioglilingua di Amato, e la mia ossessione per il prelievo forzoso

Un’intervista all’ex Ragioniere dello Stato Andrea Monorchio mi ha fatto ripensare al sei per mille che il governo sottrasse dai conti correnti degli italiani trentadue anni fa. Ancora adesso l’inconscio mi fa spendere più di quel che guadagno, perché mi sembra che se lasciassi i soldi in banca poi qualcuno me li arrubberebbe

Unsplash

«L’estate delle tette messe sotto inchiesta, della tetta artificiale, della tetta onesta». Il mio riempimento automatico, rispetto all’estate del 1992, è appunto “Estate 1992”, il che mal si concilia con una certa mia ossessione.

«Non avevamo niente. Niente». Lo dice Andrea Monorchio a Francesco Verderami, ricostruendo quella notte del luglio ’92 in cui il governo Amato (anzi: da come lo ricostruisce Monorchio, Giuliano Amato praticamente da solo) prelevò il sei per mille dai conti correnti degli italiani altrimenti – non avevamo niente – non avrebbe potuto pagare le pensioni delle mie nonne o gli stipendi degli statali.

Cose che mi ricordo della mia estate del ’92. I completini di Dolce e Gabbana fatti a guepière che comprai giacché scevra della consapevolezza che, se ti vesti come Cindy Crawford ha sfilato essendo strepitosa, nella vita vera risulterai, più che strepitosa, un mignottone. La festa di A. in quella sua superfragilistica villa a Vietri, le mozzarelle di bufala alle sei di mattina, i miei successivi non so quanti fidanzati tutti conosciuti lì. Il bikini di Urbinati e Mancini che indossavo a Capalbio quando F. minacciò di mollarmi lì, e la tizia che gli rise in faccia dicendogli che ne avrei trovati cento lieti di darmi un passaggio (tizia, sappi che ti penso da trentadue anni pure se non mi ricordo il tuo nome). M. che in barca, col disco di Jovanotti in diffusione, quando arriva il verso «perché tanto non l’hai mai fatto come l’hai fatto con me», sbotta: «Ammazza quant’è paraculo questo».

Eccetera, ma insomma: tutta roba in quest’ordine di gravitas. Avevo diciannove anni, e nessuna delle smanie di occuparmi dei destini del pianeta che hanno i diciannovenni d’oggi (non so se tutti, sospetto che scrivere solo di quelli engagé sia il modo in cui i giornalisti si convincono d’avere i figli intelligenti; quelli che pensano solo alle feste e ai vestiti e a scopare sono esclusi dalla narrazione, e tra trent’anni avremo una pletora di memoir: “Io, invisibilizzata a vent’anni”).

Quando un amico m’ha segnalato l’intervista di Monorchio al Corriere, mi sono precipitata a leggerla, giacché il prelievo forzoso è una mia ossessione. Sono convinta che si sia stratificato del mio inconscio (è l’unica eccezione in nome della quale divento credente nell’esistenza dell’inconscio, per inciso), che sia la ragione per cui spendo più di quel che guadagno: se lascio i soldi in banca, il governo me li arrubba.

Nota bene: il sei per mille significa che, se avessi centomila euro in banca e Giorgia Meloni nella notte decidesse che i miei soldi le servono per le pensioni, me ne preleverebbe seicento. Seicento euro è il prezzo di quattro rammendi invisibili ai golfini di cachemire incassati in nero dalla rammendatrice milanese che è il più importante numero nel mio telefono, rammendatrice che fa cinque mesi di ferie l’anno e che ti tratta con lo sprezzo d’un cardiochirurgo quando la supplichi di salvare il tuo golfino, rammendatrice che neppure ha un registratore di cassa figuriamoci un pos, rammendatrice che non ha mai pagato una lira di tasse contribuendo probabilmente all’attuale «Non avevamo niente» che qualcuno ricostruirà tra trent’anni. Insomma: non una cifra della quale uno si accorge, se è un adulto con dei redditi non da fame.

Tutti gli amici cui ho chiesto, però, si ricordano del trauma dei genitori. Di padri furibondi (va detto che seicento euro facevano più impressione quand’erano un milione e duecentomila lire). Nessuno se lo ricorda per sé, perché quelli con cui parlo io avevano vent’anni o venticinque, e o non avevamo una lira o avevamo conti correnti rimpinguati dalla famiglia: il prelievo forzoso ci riguardava quanto le tasse e le pensioni, cioè per niente.

In fondo, l’operazione di cui parla Monorchio fu la prova generale di quel che saremmo stati nei trent’anni successivi: un paese che campa coi soldi dei genitori e dei nonni. Le noi che si godevano le vacanze, quelle ventenni senza responsabilità e senza reddito che guardavano come animali curiosi i genitori irritati da un governo che ti arrubba i soldi la notte come un topo d’appartamento, sarebbero diventate le noi cinquantenni che mandano i figli alle scuole private coi soldi dei nonni, comprano case coi soldi dei bisnonni, vivono vite ereditarie avendo lavori che pagano cifre per le quali i nostri genitori e nonni e bisnonni non avrebbero neppure risposto al telefono. Ragione per cui, trentadue anni fa, avevano abbastanza soldi in banca da turbarsi per il sei per mille.

L’intervista a Monorchio è stupenda in molti dettagli, da Cossiga che ogni domenica gli dà una banconota da mille lire, «è per il debito pubblico», ad Amato che non dice ai ministri – né a Scalfaro né a Ciampi, allora presidente della Repubblica e governatore della Banca d’Italia – del prelievo forzoso, deciso solo tra lui e Goria: «Quando verranno desecretati i verbali della riunione, si vedrà che tra i provvedimenti citati quello del prelievo forzoso non è agli atti. Per non menzionarlo, il premier si trincerò dietro una sorta di scioglilingua e passò avanti». È la prima volta che mi dispiace che nel Novecento non ci fossero i telefoni con la telecamera: non vedrò mai lo scioglilingua di Amato.

Oggi che non solo abbiamo i telefoni con la telecamera, ma persino quelle cassette della frutta chiamate social, su cui salire e predicare a un pubblico immaginario, ieri un amico mi diceva che non potrebbe succedere: scoppierebbe la rivoluzione. Ma scoppierebbe?

Non abbiamo mai decapitato un re nei secoli delle rivoluzioni, noialtri, figurarsi se prendiamo il palazzo d’inverno nel secolo del divano. Quand’era che in Grecia smisero di funzionare i bancomat? Nove estati fa? Sì, ci furono un po’ di immagini social, poi tutto rientrò nei ranghi d’un secolo in cui l’economia dell’attenzione è quella che è, e non c’è mica nulla di cui riusciamo a scandalizzarci per più d’un paio di settimane.

Entro quindici giorni – più spesso: entro quindici ore – finisce come nella canzone del ’92, «il gioco prende il sopravvento sulle cose serie», solo che allora Lorenzo non poteva sapere che significava: verrà il secolo in cui ogni dramma in mezza giornata diventa meme.

Oggi il prelievo forzoso non lo farebbe nessuno perché i governi vogliono prendere i cuoricini sui social, che si prendono nello stesso modo in cui si prendono i voti: illudendo l’elettorato che si possa vivere al di sopra delle proprie possibilità. Ma, se invece il «non avevamo niente» diventasse pressante, se una notte di luglio qualcuno ci prelevasse gli spiccetti, finirebbe come l’estate del ’92, e come qualunque estate di questo secolo: «Come ogni caldo agosto, in giro per l’Italia a farci il culo arrosto».

Le newsletter de Linkiesta

X

Un altro formidabile modo di approfondire l’attualità politica, economica, culturale italiana e internazionale.

Iscriviti alle newsletter