In attesa di capire chi dei due rappresenti il più cieco amore e chi la più stupida pazienza, la netta differenza tra Alessandro Baricco e Lorenzo Cherubini mi diventa evidente al terzo paragrafo del “Gorgo”, quello in cui, spiega Baricco, Fenoglio usa per una di due volte nel racconto il tempo presente.
È la mattina di domenica, la scuola Holden fa trent’anni, Baricco tiene una lezione leggendo appunto “Il gorgo”. Nel cortile ci sono, tra gli altri: ex allievi; ex insegnanti; ancora allievi; ancora insegnanti; una ragazza coi capelli viola e la felpa “Fuck patriarcato” che, sedendosi nel posto più vicino al palco tra quelli non riservati, dice «io voglio stare in braccio a Baricco»; una signora con almeno il triplo degli anni di Capelli Viola che mi spiega che, nel ’97, lei ebbe Baricco come insegnante e insomma vuoi mettere con questi che ci vengono adesso; romanzieri di gran successo in questo secolo che, quando Baricco all’inizio fa il giro tra i capannelli come uno sposo tra i tavoli al banchetto, lo guardano come quella carina del secondo banco guarda il bello della scuola speranzosa che quel limone nei bagni diventi un invito fuori di sabato sera.
Più tardi, Lorenzo mi chiederà «Tu hai fatto la Holden?», e poi, senza attendere risposta, «Ma quale Holden, tu neanche l’avviamento», essendo il suo più formidabile talento il ridimensionamento dell’ego altrui – mai del proprio. Ma ci arriviamo dopo – a Lorenzo, all’ego, ai talenti. (Meno male che il Cherubini è maschio, così posso chiamare Baricco per cognome e lui per nome per tutto l’articolo senza che nessuna, neanche Capelli Viola, m’accusi d’essere ancella del patriarcato).
Cose che si capiscono della Holden – cose che capisci persino se, come me, non sei mai entrata prima d’ora alla Holden né hai mai pensato alla Holden per più di dieci secondi – durante la lettura commentata del “Gorgo” che fa Baricco.
Che nessun insegnante della Holden ha mai spiegato a Baricco che quella che lui prende per piemontesità – il non dirsi le cose, il non manifestare esplicitamente affetto, una certa qual rigidità rispetto ai sentimenti – è mascolinità, o almeno la mascolinità come la rappresenta la letteratura del Novecento. Sì, lo so che lui pensa che il padre del “Gorgo” non abbracci il figlio perché è piemontese come mamma Baricco che, se lui va a ritirare il Nobel, gli dice di stare attento alle correnti, ma no: non è che in “Morte di un commesso viaggiatore” fossero astigiani.
Che la Holden è «un’istituzione, anche se Holden Caulfield di fronte a questa parola avrebbe vomitato», ma soprattutto – non ci avevo mai riflettuto, mi ci son voluti trent’anni – che Baricco aveva capito molte cose molto prima di molti di noi, dando a una scuola di narrazione il nome del protagonista di uno dei libri più insopportabili di tutti i tempi, un secolo prima che essere un sedicenne petulante smettesse d’essere un limite e diventasse un’ambizione.
Che alla Holden non si aspettano che qualcuno a scuola vi abbia insegnato l’italiano, e quindi al primo anno vogliono che impariate a mettere le virgole per bene, mentre al terzo ve le lasciano mettere in modo musicale (tra le parti più interessanti del commento a Fenoglio, quelle in cui Baricco spiega che la tal cosa l’avrebbero corretta al primo anno ma non al terzo; ma la più interessante è certamente quella in cui, di fronte a dei tempi verbali effettivamente abborracciati, Baricco sbotta che non si tratta più di registri colloquiali – che lui chiama «andare dritti» – o di primo o terzo anno: «Questo è il mio benzinaio, con tutto il rispetto»).
Si capisce anche che Baricco dev’essersi segnato in un quaderno tutti i cattivi, in questi trenta e più anni da personaggio pubblico (nota a me stessa: la prima volta che lo incrocio, devo chiedergli se, per quella stroncatura che aveva scritto di “Seta”, perdonò Pietro Citati in nome dell’essere la stroncatura scritta in modo irresistibile, o se ammirare la prosa in una stroncatura è vezzo riservato a chi non è lo stroncato).
Rivendica il loro essere ancora lì, il loro essere diventati un’università dopo essere stati trattati come dei dilettanti, come dei praticoni, come – tono semi-indignato ma con allegria – un modo in cui «Baricco fa i soldi» (un paese in cui «fare i soldi» è un’accusa, ma poi ci meravigliamo se i governi di destra dicono che con la cultura non si mangia: cosa potrà mai andar storto).
Dice che saranno lì per i cinquanta, e prende un impegno per i quaranta: non ha ancora capito perché il finale del “Gorgo” sia così commovente da esserlo «anche se lo legge Scurati», ci sta ancora pensando, «c’ho delle spiegazioni provvisorie, tra dieci anni torno a dirvelo» (se posso far risparmiare dieci anni a Baricco: perché siete maschi, vi commuove l’asciuttezza emotiva perché la scambiate per sentimentalismo represso, e infatti quell’Arthur Miller viene rappresentato da settantacinque anni nonostante sia da tagliarsi le vene dalla noia).
All’inizio della lettura, arriva Lorenzo Jovanotti. Si siede in prima fila, e succede una cosa la cui straordinarietà colgo solo perché mi è capitato di stare seduta vicino a Lorenzo a teatro, o a concerti, di stare seduta vicino a Lorenzo spettatore, e di notare un dettaglio che è impossibile non notare: quando sul palco ci sono gli altri, Lorenzo si rompe i coglioni. Sempre, anche quando c’è una pièce di Harold Pinter o un concerto di Springsteen, non è un problema di qualità della rappresentazione scenica: Lorenzo giù dal palco non è nel suo, per dirla col lessico che userebbero lui o Baricco.
Lì no. Baricco fa il suo (scusate, oggi ladra di lessici altrui), e Lorenzo lo ascolta. E io all’inizio m’illudo che sia una prova delle superiori qualità di oratore di Baricco, un incantatore di serpenti che ascolteresti anche se leggesse l’elenco del telefono, e solo dopo un po’ capisco: “Il gorgo” sarà pure uno dei testi su cui si sono tenute più lezioni alla Holden, ma soprattutto è un testo che permette a Baricco di dire delle cose su di loro.
Su di lui, su Lorenzo, che poi salirà sul palco e quelle cose le espliciteranno, quella fine di Novecento in cui uno veniva stroncato perché non sapeva cantare e l’altro perché non sapeva scrivere, e ora guardaci («ora guardaci» non lo dicono mai, perché sono troppo intelligenti e troppo vanesi per non sapere che non c’è mica bisogno di dirlo: lo dice il nostro stare lì a naso in su a guardarli, trent’anni dopo).
Quando Baricco dice che Fenoglio non apparteneva al «gran galateo letterario», sta parlando di Lorenzo. Quando Baricco dice di Fenoglio «Lo scrivere letterario si leva sempre più dai coglioni», sta facendo il giovane Lorenzo che sbuffa davanti alla tradizione cantautorale. Insomma, era un falso allarme: Lorenzo non stava ascoltando Baricco, stava ascoltando sé.
Poi quello lo fa salire sul palco, e gli dice che s’era scordato d’avvisarlo che voleva cantasse, ci sono due chitarre. Prima, leggendo Fenoglio, Baricco aveva fatto notare che in un paragrafo c’erano tre «ma», e insomma «il “ma” è proprio elementare», tre «ma» in un paragrafo non te li lasciano passare «neanche al terzo anno», «guardate che il “ma” si patisce», e adesso – quando attacca “Penso positivo” e l’intero cortile fa «oh oh» al momento giusto – Lorenzo dice con la soddisfazione dell’alunno allegro che però è stato attento nei punti giusti della lezione «Questo è proprio elementare, come il “ma”».
Poco dopo succede una cosa illuminante. Lorenzo accenna quella che forse è la sua più bella canzone, “Mi fido di te”, e la gente non la canta, e io sto già pensando «pubblico di merda, conoscete “Penso positivo” e non quelle belle», ma all’improvviso si sciolgono tutti e cominciano a cantare, e accade – sarà mica un caso – su quella sintesi dell’esperienza umana che è la frase «forse fa male, eppure mi va».
Due ore dopo, comprerò una copia (chissà dov’è la mia) della prima raccolta dei “Barnum” che Baricco scriveva per La Stampa negli anni Novanta. Lo farò perché i due hanno raccontato di quando Baricco nel 1992 scrisse del tour Carboni/Jovanotti, che chissà se è un falso ricordo di entrambi o solo un pezzo scomparso dagli archivi, fatto sta che nella raccolta c’è invece il pezzo che scrisse sul tour di Lorenzo 94, «Ero rimasto a quando era Jovanotti, cioè uno che detto il nome era detto tutto, al confronto Dorelli è un nome d’arte da intellettuale».
«Non ho sedici anni, ma se li avessi vorrei che me le raccontassero così, quelle cose lì», scrive il Baricco trentaseienne mentre trasecola come da sempre gli adulti (era un mondo adulto, a trentasei anni eri grande) trasecolano davanti ai ragazzini scemi. Ma, soprattutto, scrive la frase che basterebbe, se io non fossi compiaciutamente prolissa, a sintetizzare la mattina in cui quei due – il sogno d’ogni autore televisivo, parlando del mestiere da vivo – si smezzano il palco: «Ci sono delle storie da raccontare, e a decidere quali sopravviveranno è la forza del narratore che le racconta».
Cosa migliore raccontata ieri mattina dal narratore Baricco, a proposito dell’anaffettività maschile, dell’astenersi da certi gesti: «Per una forma di eleganza del cazzo, per una forma di eticità di ’sta fava, per una forma di rigore che vai affanculo» (dice Baricco che è migliorato, ci ha lavorato, e ora abbraccia molto: se vive abbastanza a lungo, Willy Loman finisce per diventare padre dell’anno).
Cosa migliore raccontata ieri mattina dal narratore Lorenzo, a proposito implicitamente della sua ostinazione a fare canzoni in cui non ci si lascia ed esplicitamente d’un laudario conservato nella biblioteca di Cortona: «Il concetto di lode non è proprio frequentatissimo nelle canzoni, è più frequentato il concetto di lamento, il concetto di mancanza, la questione delle donne che ti lasciano, dell’amore che non c’è, del paese che non funziona».
La netta differenza, dicevo (mica ve lo sarete già dimenticato). Baricco sta leggendo Fenoglio da un paio di minuti, è alla terza frase del racconto, e alla destra del palco, oltre uno degli archi che dividono il cortile dalla strada, si sente un vociare. E io penso «è arrivato Lorenzo», e non lo penso perché sono intelligentissima nonché in possesso dell’informazione che entrerà da lì.
Lo penso perché c’è una diversa qualità del rumore di fondo, nell’accoglienza per Lorenzo e in quella per Baricco, nel modo in cui i vocianti fuori staranno chiedendo all’uno di farsi una foto insieme (lo so anche se non li ho visti, lo so perché vivo su questo pianeta), e in cui i devoti all’interno guardano l’altro. È la differenza tra la celebrità di quello che vuoi usare per farti bello sui social, e la celebrità di quello che speri ti degni d’uno sguardo.
È la differenza tra il consenso e il talento? Non lo so, non credo, Lorenzo è popolare oggi come Baricco lo era quando faceva la tv ma certo non si può dire che non abbia talento. Però a un certo punto Baricco ha detto che le due popstar sue contemporanee sono Lorenzo e Madonna, e tutt’e due hanno cominciato non sapendo cantare, e io mi sono ricordata di una conoscente che, quando dico che il male di questo secolo è l’avere ambizioni superiori ai talenti, mi risponde che non è una caratteristica da disprezzare: con più ambizioni che talenti si diventa Madonna.
Ho quasi solo domande e quasi mai risposte, e quindi non lo so cosa dica la differenza tra il rumoreggiare della folla per uno e il tacere della folla per l’altro, ma ho il sospetto che in quella differenza lì stia, se non il passaggio tra i due secoli, di sicuro una storia da raccontare, e spero che dalla Holden esca qualcuno in grado di farlo.