Se lo Zeitgeist dell’epoca di Friedrich Hegel era l’imperatore francese Napoleone Bonaparte che entrava a cavallo a Jena, lo spirito del tempo dell’Europa contemporanea è quello di un arroccamento securitario teso a difendere i propri confini e a ricacciarne fuori gli esseri umani indesiderati che tentano di varcarli. Così, le politiche migratorie sono diventate la cartina tornasole dello sbilanciamento verso destra, graduale ma inequivocabile, del baricentro politico di un’Unione europea intenta a rinchiudersi all’interno di una fortezza dalla quale si illude possa dipendere la propria stabilità. La securitizzazione della gestione dei flussi migratori da parte degli Stati membri (che rimangono gli indiscussi protagonisti di quel goffo ibrido istituzionale che è l’Ue, con buona pace dei federalisti di ieri e di oggi) è un processo in atto già da tempo, risultato della lunga cavalcata che ha portato al potere le destre in quasi tutti gli angoli d’Europa.
Un processo che non è iniziato con la cosiddetta «crisi migratoria» seguita alla catastrofe umanitaria esplosa in Siria – per gestire la quale Bruxelles non ha trovato soluzione migliore che non versare sei miliardi di euro nelle tasche del nuovo sultano turco Recep Tayyip Erdoğan perché trattenesse in casa sua i disperati che cercavano di raggiungere il Vecchio mondo – e nemmeno con gli «attacchi di guerra ibrida» che la Bielorussia sta conducendo contro le frontiere orientali del blocco – per contrastare i quali il premier polacco Donald Tusk ha chiesto e, di fatto, ottenuto il permesso di «sospendere il diritto d’asilo» per i profughi che i soldati di Minsk spingono contro le barriere di filo spinato erette da Varsavia.
Il «mostro» dell’immigrazione irregolare attanaglia le cancellerie europee ormai da decenni, e sul terrore che questo provoca nelle opinioni pubbliche dei Paesi più ricchi del mondo hanno basato il proprio successo elettorale una pletora di partiti populisti ed etno-nazionalisti che si collocano quasi tutti (con l’eccezione di alcuni ibridi rossobruni, come la Bündnis Sahra Wagenknecht in Germania) all’estremo destro dello spettro politico. La loro ascesa in Europa è stata progressiva ma inesorabile. Sono entrati nei parlamenti regionali e poi in quelli nazionali, hanno influenzato le forze del mainstream conservatore trascinandole sempre più a destra e, alla fine, hanno varcato la soglia dell’area di governo in un numero crescente di Stati Ue.
In alcuni, come il nostro, sono arrivati a guidare l’esecutivo. Ed è proprio la premier italiana Giorgia Meloni che porta a casa il successo politico più grande dal Consiglio europeo che si è tenuto giovedì (17 ottobre) a Bruxelles. La sua linea ha fatto scuola in Ue e, complice lo Zeitgeist che ha spostato il continente verso destra, è diventata il modello da seguire per i Ventisette sotto l’impulso della presidente della Commissione Ursula von der Leyen. Dopo le trasferte congiunte delle due intorno al Mediterraneo, alla fine il capo dell’esecutivo comunitario è uscita allo scoperto e ha messo nero su bianco, in una lettera alle cancellerie alla vigilia del summit, l’approccio che vuole adottare in materia migrazione nel suo secondo mandato.
Tre i capisaldi della missiva: l’implementazione del nuovo Patto sulle migrazioni e l’asilo, adottato dai co-legislatori Ue lo scorso maggio; lo sviluppo di partnership «olistiche» con i Paesi terzi (soprattutto quelli di origine e transito dei flussi migratori); e la definizione di un «approccio comune sui rimpatri» per assicurarsi che «coloro che non hanno il diritto di rimanere nell’Ue vengano effettivamente rimpatriati». Il tema dei rimpatri è stato dunque al centro delle discussioni al vertice di Bruxelles, e anche se non sono state prese decisioni specifiche al riguardo – la materia è complessa e richiederà diverse altre riunioni perché vengano elaborate proposte puntuali – è evidente che su questo punto la destra radicale europea ha vinto.
Le conclusioni del vertice non menzionano esplicitamente termini come «return hubs» o «external hotspots» – citati invece nella lettera di von der Leyen – ma ribadiscono la necessità di «facilitare, aumentare e velocizzare i rimpatri» dei richiedenti asilo le cui domande vengono rifiutate e, soprattutto, quella di «prendere in considerazione nuovi modi per prevenire e contrastare la migrazione irregolare, in linea con il diritto comunitario e internazionale». I leader dei Ventisette hanno quindi incaricato la Commissione di elaborare al più presto una nuova proposta legislativa per regolamentare questo delicato aspetto della politica migratoria, su cui la revisione della legislazione attuale è impantanata dal 2018.
Quella degli hotspot esterni, cioè di centri di detenzione da installare in Paesi extra-Ue, è la proposta che ha occupato il centro delle cronache nelle ultime settimane (anche grazie al primo ministro Viktor Orbán che l’ha difesa a spada tratta durante la scorsa plenaria dell’Eurocamera a Strasburgo) e su cui, prima della riunione tra i capi di Stato e di governo, Meloni ha incentrato un confronto informale con gli omologhi di Austria, Cechia, Cipro, Danimarca, Malta, Paesi Bassi, Polonia, Slovacchia, Svezia e Ungheria. Lì, ad esempio, è emerso che il governo dell’Aia (neanche tutti i partner della coalizione, per la verità) vorrebbe deportare i profughi la cui domanda d’asilo è stata rigettata in Uganda, e che la Danimarca starebbe valutando una soluzione simile con destinazione Kosovo.
Naturalmente, l’esempio per tutti sono i centri di permanenza per i rimpatri (Cpr) costruiti dall’Italia in Albania, dove Roma intende «depositare» temporaneamente i richiedenti asilo mentre ne processa le richieste di protezione internazionale. La stessa von der Leyen si è detta intenzionata a «imparare» dalle lezioni che quest’esperienza potrà fornire. Peccato che, oltre ai quattro profughi già rispediti indietro non appena sbarcati sul suolo albanese, nelle scorse ore il tribunale di Roma abbia bocciato il trasferimento anche degli altri 12. Un flop? Si vedrà.
Con questi hotspot, comunque, ci sono una serie infinita di problemi. Sia legali che politici, per non parlare di quelli logistici. Intanto bisogna capire di cosa stiamo parlando: si tratterebbe di centri di detenzione in cui vengono internati i richiedenti asilo mentre le loro domande vengono processate (come i Cpr italiani) o di veri e propri hub di rimpatrio, in cui cioè trasferire i migranti le cui richieste sono già state rifiutate dagli Stati membri e da cui poi farli tornare nel loro Paese d’origine?
Dopodiché, il diritto internazionale sancisce che non si può rimpatriare qualcuno se non esistono accordi specifici con lo Stato di provenienza, e nemmeno se tale Stato non può essere considerato «sicuro» nella sua interezza (come recentemente stabilito dalla Corte di giustizia dell’Ue). Tanto è vero che, stando ai dati Eurostat, degli oltre quattrocentottantaquattromila ordini di lasciare il territorio Ue emessi dai Ventisette nei confronti di altrettanti cittadini di Paesi terzi, nemmeno il diciannove per cento sono stati effettivamente eseguiti. Ma, come si dice in politica, se c’è la volontà si troverà anche un modo. Detto, fatto. La seconda Commissione von der Leyen, che dovrà gestire l’implementazione del nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo entro la fine del 2026, si è dunque già incaricata di escogitare «soluzioni innovative» per quadrare il cerchio e risolvere l’impasse in uno dei dossier più scottanti in Ue.
E poco importa se, appena sei anni fa, era stato proprio l’esecutivo comunitario (guidato all’epoca da Jean-Claude Juncker) a stabilire che un’operazione come quella dei return hubs si configurava come una violazione del diritto europeo e internazionale. Lo spirito del tempo ormai si è mostrato e l’Unione ha finalmente lasciato cadere la sua maschera. Ora resta solo da costruire, mattone dopo mattone, quella «fortezza Europa» che i nazional-populisti sognano da sempre.