Mercoledì sera la vicepresidente statunitense Kamala Harris ha parlato a un evento elettorale nella contea di Bucks, in Pennsylvania, uno dei sette swing state contesi dai due candidati in corsa per le presidenziali del 5 novembre. All’appuntamento hanno partecipato un centinaio di repubblicani, tra cui ex funzionari del Gop ed ex collaboratori di Donald Trump, che recentemente hanno dichiarato di sostenere la candidatura dell’ex procuratrice.
L’obiettivo – dichiarato – di Harris era una call to action rivolta agli indecisi e ai conservatori della Pennsylvania delusi dalla condotta anti-democratica assunta da Trump. Il suo discorso non si è concentrato su argomenti politici, ma su ciò che è in gioco in questa sfida elettorale, vale a dire «gli ideali democratici per cui i nostri fondatori e generazioni di americani prima di noi hanno combattuto. In gioco c’è la Costituzione degli Stati Uniti». Parole che hanno posto l’accento sull’importanza delle istituzioni statali americane e che potrebbero aver fatto breccia negli elettori che hanno seguito il comizio. Andare a segno in uno degli Stati più viola del Paese farebbe inclinare, e di tanto, l’ago della bilancia dei voti americani verso sinistra. E questo Harris lo sa bene, e pure Trump.
Dei sette Stati in bilico per le prossime elezioni statunitensi (i tre della Rust Belt: Wisconsin, Michigan e Pennsylvania; i due del Sud: Georgia e Carolina del Nord; e i due del Sud-Ovest: Arizona e Nevada), la Pennsylvania è infatti il principale campo di battaglia per i due candidati in corsa. Chi vince lì, ha il novanta per cento di possibilità di diventare il quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti, stando ai calcoli dell’analista Nate Silver.
Dal 1972 in poi, gli elettori di questo Stato hanno sempre votato per il candidato che poi è andato alla Casa Bianca, a parte in due casi: nel 2000, con Al Gore, e nel 2004, con John Kerry. In undici casi su tredici, dunque, negli ultimi cinquant’anni chi ha vinto in Pennsylvania ha poi ottenuto la presidenza degli Stati Uniti. Una quota che legittima il soprannome di Keystone State, affibbiato alla Pennsylvania al tempo delle prime tredici colonie per la sua centralità geografica.
Lasciarsi scappare i diciannove Grandi Elettori messi in palio da questo Stato vorrebbe dire concedere all’avversario una sorta di ipoteca sulla Casa Bianca per i prossimi quattro anni. «Il 5 novembre, intorno alle dieci di sera (ora di New York), guardate chi avrà vinto la Pennsylvania in attesa che il Midwest e la Costa occidentale chiudano i seggi: se i suoi diciannove Grandi Elettori saranno assegnati a Trump potete andare a dormire tranquilli, o meglio disperati, perché il nuovo presidente sarà Trump», aveva scritto il direttore Christian Rocca ad agosto.
Numeri alla mano, ottenendo la Pennsylvania, per i repubblicani sarebbe sufficiente bissare il successo del 2020 in Carolina del Nord (sedici Grandi Elettori) e ritingere di rosso la Georgia (sedici), dopo la parentesi di Joe Biden (impresa riuscita ai Gop per cinque volte di fila, dal 2000 al 2016). Discorso simmetrico per i democratici: mantenendo la Pennsylvania, basterebbe confermarsi anche in Wisconsin (dieci), in Michigan (quindici) e in un distretto congressuale in Nebraska (uno) per arrivare al traguardo dei duecentosettanta Grandi Elettori, e replicare il successo di quattro anni fa.
Per questo motivo, la Pennsylvania è al centro delle campagne elettorali di Trump e Harris. Lo dimostrano gli investimenti in termini di tempo, denaro ed energie fatti in questi mesi. Dall’inizio della campagna elettorale, qui i due partiti hanno organizzato ben quarantasette comizi per i loro leader (ventisei i Dem e ventuno i Gop), e hanno speso cumulativamente trecentocinquanta milioni di dollari in spot televisivi (centottanta i Dem e centosettanta i Gop). Per avere un’idea: tra i sette swing states, il Michigan si colloca al secondo posto per numero di visite totali, trentacinque, e per fondi investiti in pubblicità televisiva, duecento otto milioni di dollari.
All eyes (and money) on Pennsylvania, dunque. Al momento, quasi tutti i sondaggi danno Harris davanti a Trump di uno o due punti percentuali. Un divario microscopico, indice del forte equilibrio che negli ultimi anni ha contraddistinto l’elettorato di questo Stato, tanto che c’è chi lo considera il «nonno degli Stati in bilico». Nel 2020 Biden si era aggiudicato la Pennsylvania per ottantamila voti a favore, in pratica lo 0,2 per cento di margine su Trump. Quattro anni prima, invece, era stato il tycoon ad avere la meglio, a sorpresa, sulla rivale Hillary Clinton per quarantamila preferenze. Prima di allora, i Dem avevano avuto la maggioranza con percentuali risicate per sei elezioni consecutive, a partire dal 1992.
Le ragioni di questo equilibrio politico sono da ricercare, innanzitutto, nella composizione sociale della Pennsylvania, che per certi versi può essere considerata «quasi un microcosmo dell’America», come ha recentemente detto il vicegovernatore democratico di questo Stato, Austin Davis. Di fatto, ciò che rende la Pennsylvania uno Stato così diviso è la presenza di un insolito mix di forze demografiche e geografiche.
I grandi centri di Philadelphia e Pittsburgh ospitano principalmente i sostenitori dei candidati democratici. Tra queste due città, si estende una specie di enorme Louisiana conservatrice, a tratti razzista e reazionaria, a forte trazione repubblicana. La quota degli elettori bianchi senza laurea residente in queste zone che probabilmente voterà Trump rappresenta circa il cinquanta per cento dei voti in palio in questo Stato.
Harris dovrà cercare di ottenere qualcosa in queste contee storicamente rosse (nel 2020 Biden si fermò a tredici su sessantasette totali). Il suo staff, spiega il New York Times, si sta prodigando in questa direzione, attraverso annunci online e spot radiofonici diretti agli elettori delle sacche a forte predominanza ispanica della Pennsylvania orientale e ai repubblicani indecisi.
Ai fattori sociali che per decenni hanno sancito un sostanziale equilibrio politico in Pennsylvania, se ne aggiungono altri di tipo circostanziale, legati vicende politiche che hanno interessato il Keystone State negli ultimi mesi. Un primo elemento riguarda l’impatto regionale del tentato assassinio a Trump a Butler, una contea a cinquantasei chilometri a nord di Pittsburgh, il 14 luglio scorso. Il tycoon aveva saputo sfruttare l’episodio per accrescere il proprio consenso presso le frange più radicali del suo partito, e il suo ritorno sulla scena del (mancato) crimine in compagnia di Elon Musk, il 6 ottobre, potrebbe aver potenziato ulteriormente la propria immagine di leader forte e inscalfibile.
Un altro punto ha a che fare con la decisione di non nominare come vice di Harris Josh Shapiro, governatore democratico della Pennsylvania. A pesare nella sua esclusione, in particolare, erano state le sue origini ebree, e così la scelta – su pressioni dell’ala sinistra del partito – era ricaduta su Tim Waltz, alla guida del Minnesota. Una mossa politica, secondo diversi osservatori, che potrebbe ostacolare la battaglia elettorale di Harris in questo Stato.
A complicare le cose per il partito democratico, inoltre, è il fatto che la candidata californiana non ha la stessa influenza in Pennsylvania che avrebbe potuto avere Biden. Il presidente degli Stati Uniti è infatti originario di Scranton, una cittadina nella contea di Lackawanna, abitata da cattolici conservatori che però hanno votato Dem nel 2020. Senza Scranton Joe, spiega Politico, Trump avrà gioco facile in quelle zone.