Le parole più stupide della lingua italiana non sono «io al tuo posto farei così» (però sono sul podio in tutte le lingue). Le parole più stupide della lingua italiana non sono «non è il mio stile» (ma sul podio anche loro). Le parole più stupide della lingua italiana sono: «ma ti pare».
Ma ti pare che chiedi soldi all’internet. Ma ti pare che racconti i fatti tuoi in televisione. Ma ti pare che ti sfoghi con gli estranei. Ma ti pare che fai yoga. Ma ti pare che vai in analisi. Ma ti pare che credi in un qualche dio. Ma ti pare che voti il tal partito. Ma ti pare che dici che stai morendo.
C’era un film di Woody Allen che s’intitolava “Whatever works”, in italiano “Basta che funzioni”, che mi pare sia l’unica angolazione possibile da cui guardare l’esperienza umana: ognuno fa quel che riesce, ognuno se la cava come può, ognuno trova qualcosa che funziona per lui e che magari (quasi sicuramente) a me fa schifo ma c’è anche il caso che nelle sue condizioni farei uguale, che ne so.
Ho visto, in questi diciassette anni di social, amici e amiche sbigottirsi e sdegnarsi e dirsi increduli di fronte a tutto. Ma ti pare che fai il post sulla morte dei tuoi genitori. Ma ti pare che fotografi la tua chemioterapia. Ma ti pare che chiedi consiglio a estranei su un amore finito. Eccetera. Li ho visti, quando poi toccava a loro, fare più o meno le stesse cose su cui si erano detti matiparisti. Quasi sicuramente sono stata una matiparista anch’io, prima o poi.
Però, sempre più spesso, mi accade di avere conversazioni in cui la mia risposta è: ma io che ne so. Ma io che ne so di come reagirei se avessi una malattia che non guarisce, una persona cara che sta morendo, o anche solo le emorroidi. L’altro giorno una persona con le emorroidi me ne parlava con una certa voluttà, e quando gliel’ho fatto notare mi ha spiegato che in queste settimane di dolore ha scoperto che la gente non vede l’ora di parlare di emorroidi, quasi tutti le hanno avute, quasi tutti conoscono il tuo dolore, quasi tutti sono preparati sul tema (adesso anch’io: mi sono fatta spiegare tutto, incredula che alla mia ipocondria fosse finora sfuggita questa specializzazione).
Io sono abituata a non avere problemi, e appena ne ho uno do di matto. Il treno in ritardo, il tecnico della lavatrice che sbaglia l’installazione, la citazione in giudizio di qualcuno che si percepisce diffamato, una bollicina sul polso che sicuramente non è una puntura di zanzara ma il segno che nessuno coglierà in tempo d’una malattia rarissima e incurabile, la pioggia quando ho bisogno che non mi si disfi la messinpiega: qualunque minima difficoltà getta la mia non allenata muscolatura in un tale stato di prostrazione e isteria che proprio non posso dire «ma ti pare, io questo non lo farei mai».
Io non so se, disperata perché non ho un amico che mi fa un prestito o dei guadagni in arrivo, non chiederei soldi all’internet, se mi servissero soldi. Non so se, disperata perché non capisco cosa mi sta succedendo, non mi affiderei a un analista o a un parroco, a mamma Ebe o a un’insegnante di yoga. E, se vedo qualcuno parlare al mondo della propria morte imminente, proprio non riesco a dire ah io no, io morirei con discrezione, io non mi farei fotografare a immagine della mia diagnosi, non è il mio stile.
Ieri è uscito un numero di Vanity Fair che ha in copertina Eleonora Giorgi, e non ce l’ha per farle raccontare della Tea Guerrazzi di “Sapore di mare 2”, il più bel personaggio femminile nel cinema italiano di fine Novecento. Non l’ha messa in copertina per farla parlare di “Borotalco”, la commedia fondativa di questo nostro tempo in cui la fama è l’unica valuta spendibile e il senso del ridicolo è andato fuori corso. Non ce l’ha messa neanche per farle raccontare la prima giuria di qualità di Sanremo, in cui era l’unica donna tra Tognazzi e Sordi, tra Giancarlo Giannini e Sergio Leone.
Per nessuna delle cose che ha fatto, Vanity Fair avrebbe mai messo in copertina una settantenne non particolarmente rilevante nella storia del cinema. Ce l’ha messa per la stessa ragione per cui raccontavo giorni fa che, ad aprile 2006, il Vanity Fair americano mise in copertina Teri Hatcher, all’epoca una delle “Desperate Housewives”: non per la rilevanza del prodotto in cui appariva, ma per il ricatto del giornalismo confessionale.
Vanity Fair ha in copertina Eleonora Giorgi quest’anno per la stessa ragione per cui aveva in copertina Michela Murgia l’anno scorso: perché sta morendo. È un’operazione disgustosa? Anche qui: come si fa a dirlo. Se è legittimo che qualcuno decida di morire raccontandolo al mondo, non possiamo poi metterci a far la morale a chi a quel racconto fornisce una piattaforma. Certo, ha tutta l’aria dell’appropriazione di cadavere; ma, se il cadavere è consenziente, basta che funzioni per chi muore: mica deve piacere a chi ha lo sfacciato culo di vivere un altro po’.
O forse sì, possiamo. Possiamo far la morale a chi pubblica libri dei morti a cadavere già mangiato dai vermi, al cassetto infinito di inediti, ai giornali che vivranno di rendita della copertina su cui t’avevano messa quando muori e poi all’anniversario di morte e poi ancora al cinquantennale del film del libro del chissà.
Possiamo fare la morale, trovare disgustosa l’operazione, e accedere anche noi a quel diritto universale che è il basta-che-funzioni. Al diritto al raccontarcela. Persino quando quel raccontarcela include «ma ti pare che intervisti quella che sta morendo per vendere due copie in più, io non lo farei mai». Possiamo dirlo, se dirlo ci consola e ci serve e ci funziona per tirare sera senza disperarci troppo; poi tanto, se quando viene il nostro turno facciamo uguale, non se ne ricorda mica nessuno.