ForzalavoroPerché servono i «vegani del lavoro»

In Italia ci sono tre milioni di persone che si barcamenano tra impieghi irregolari, sottopagati, neri o grigi. Su di loro vige una sorta di tolleranza generalizzata da cui traiamo beneficio tutti: imprese, consumatori, politica. E il sindacato dov’è? Un libro e uno spettacolo teatrale parlano del tema. Iscriviti alla newsletter di Lidia Baratta

(Foto di Angelo Maggio)

Partiamo da un libro e da uno spettacolo teatrale, che parlano della stessa cosa: il lavoro irregolare, sfruttato e sottopagato, che in Italia interessa circa tre milioni di persone.

Il libro si chiama “Questo non è lavoro” (Il Sole 24 ore), scritto da Giampiero Falasca, avvocato esperto di diritto del lavoro e partner di Dla Piper, che in poco più di duecento pagine raccoglie testimonianze e interviste su questo grande bacino che va dal lavoro nero al grigio, passando per innumerevoli sfumature contrattuali. Lo spettacolo invece è “Smart Work”. Scritto da Gianluca Vetromilo e Armando Canzonieri, racconta la vita al cardiopalma di un giovane laureato che (soprav)vive a Milano facendo due lavori, il rider e l’operatore di call center, ma a malapena riesce a pagare l’affitto.

È il «lato oscuro» del lavoro, come lo chiama Falasca, su cui le discussioni politiche, i convegni e le lotte sindacali sono state e continuano a essere perlopiù ininfluenti. Sono rider, braccianti, camerieri, ma anche giornalisti, avvocati, architetti, grafici, designer. Che il più delle volte appartengono a tre categorie: giovani, donne, immigrati.

È il «lavoro dannato» da cui tutti, in fondo, traiamo benefici e che in qualche modo abbiamo pure imparato a tollerare. Ne traggono beneficio le tante imprese che riescono a stare sul mercato solo violando le regole e pagando poco il lavoro. Ne traggono beneficio i consumatori, che vogliono acquistare prodotti e servizi spendendo poco o zero. Ne trae beneficio la politica, di ogni schieramento, che sul lavoro ha fatto e fa tanta propaganda promettendo di risolvere questo o quel problema con due o tre pagine di decreto.

Il libro e lo spettacolo elencano gli annunci di lavoro più improbabili, dove è subito chiara la violazione delle regole. Una ricerca attiva di lavoratori da sfruttare, senza nascondersi. Si cercano magazzinieri «specializzati da inserire in stage». «Avvocatesse» di bella presenza che indossino «tacchi a spillo». E camerieri che lavorino 54 ore a settimana per 5 euro l’ora. Tutto vero.

Sulla questione, abbiamo fatto una chiacchierata con Giampiero Falasca che, tra le varie cose, nel 2021 ha assistito come legale Just Eat nella negoziazione dell’accordo collettivo per l’assunzione dei rider come lavoratori subordinati

Falasca, l’impressione è che l’economia italiana sopravviva anche grazie al «lavoro dannato».
Purtroppo quando ci raccontiamo il bello, il made in Italy, le piccole e medie imprese, raccontiamo solo un pezzo della storia. Certo ci sono sempre le eccezioni. Ma dalle analisi emerge che nella grande impresa multinazionale c’è in media un livello di regolarità del lavoro molto più alto. Mentre le piccole imprese, di cui è composto in gran parte il nostro tessuto produttivo, hanno spesso bisogno di questo “carburante alterato” per andare avanti. Quando parliamo di produttività del lavoro e ci confrontiamo con gli altri Paesi, dimentichiamo sempre che in Germania, in Francia o in Spagna c’è una qualità dei contratti di lavoro ben più alta e c’è anche una produttività più alta. A contratti migliori corrisponde una produttività migliore. Da noi, invece, rispetto ad altri Paesi, che questo fenomeno lo combattono, abbiamo sviluppato una sorta di tolleranza generalizzata.

Ci sono settori più interessati di altri. Ma in ogni settore si incontra chi ha il contratto e chi la finta partita Iva, che spesso sono anche vicini di scrivania.
Non parliamo solo di rider, operai e braccianti. Ci sono ricercatori, giornalisti, professionisti intrappolati in contratti precari e sfruttamento. È un fenomeno interclassista e intercategoriale, che colpisce un po’ ovunque. È come se ci fosse una cittadella, quella delle tutele, difficilissima da scavalcare. Quando si sta dentro, è difficile uscirne. Ma per chi resta fuori, non c’è un mercato del lavoro dinamico dove si circola da un posto di lavoro all’altro con fluidità. E questo purtroppo è il motivo per cui la nostra economia non cresce, neanche se festeggiamo il record di 24 milioni di occupati. Dobbiamo ricordare che siamo sempre gli ultimi in Europa.

Chi si occupa di chi sta al di fuori della «cittadella delle tutele»?
Negli ultimi vent’anni, politica e sindacati sono stati ossessionati dalla questione del licenziamento, ma ci siamo dimenticati di tutte quelle persone che non si pongono il problema della tutela contro il licenziamento perché un contratto non ce l’hanno e sono licenziate a voce. Abbiamo una politica che discute tantissimo di salario minimo, causali dei contratti a termine, welfare aziendale, regole sui licenziamenti, ma non c’è un’azione decisa di contrasto per le false partite Iva, i falsi Cococo o il lavoro nero dei braccianti nell’agricoltura. Lo scorso giugno, con il caso del bracciante morto dopo aver perso un braccio, ci siamo tutti accorti che nelle campagne Pontine ci sono migliaia di braccianti stranieri sfruttati. Ma sappiamo ora se in quell’area la situazione è cambiata? Abbiamo una capacità di indignarci molto rapida, ma anche molto intermittente, che evapora presto.

Sembra che da questo lavoro dannato, in fondo, ne traiamo benefici tutti.
Prendiamo la questione dei rider, di cui sono occupato direttamente. Occupandomene, ho visto come la politica alcuni temi li cavalca in maniera irresponsabile, facendo promesse che poi non vengono mantenute e promettendo soluzioni semplici a problemi complessi. Ma dall’altro lato c’è anche un consumatore feroce, che ragiona così: “Io voglio la cena a casa e la voglio a 50 centesimi. Se tu me la offri a 60, io non vengo da te. Non mi interessa se il rider mette il casco o no, io voglio la cena a 50 centesimi in mezz’ora”. Questo ragionamento schiaccia i rider, ma anche le piattaforme. Il problema quindi è complesso e non si può raccontare, come fecero i Cinque Stelle in passato, che la soluzione si poteva raggiungere in poche settimane. E infatti la stiamo ancora aspettando.

È quello che lei chiama «populismo giuslavoristico».
È un atteggiamento che appartiene a tutti gli schieramenti politici. In questi ultimi due decenni, dopo dopo il pacchetto Treu e la legge Biagi, è stata inaugurata una lunghissima stagione – con la piccolissima parentesi nel Jobs Act, che oggi viene visto come il male assoluto – in cui per problemi complessi sono state proposte all’opinione pubblica soluzioni semplici che avevano solo un respiro elettorale. L’apoteosi è stata «l’abolizione della povertà». E oggi uguale e contraria è l’abolizione del reddito di cittadinanza del governo per portare la gente a lavorare. Servirebbero azioni e soluzioni più complesse, ma portano pochi voti e quindi non se ne occupa più nessuno.

E il sindacato dov’è, in tutto questo?
Anche in alcune parti del sindacato c’è la spinta a fare populismo, a lanciare slogan. Ma il sindacato ha un ruolo cruciale e va aiutato, soprattutto nelle aree dove il lavoro dannato è più presente. Però, anziché lamentarsi della nascita dei sindacati autonomi, bisogna che i sindacalisti si chiedano che rapporto hanno con i lavoratori che queste nuove sigle rappresentano. Andate sui posti di lavoro? Li conoscete? I giovani certo non sono attratti da signori anziani che parlano il politichese. E in più il sindacato è un ambiente molto maschilista: se si guarda la foto di una qualunque trattativa per il rinnovo di un contratto collettivo, sono quasi sempre e quasi tutti uomini.

Tra i meno rappresentati ma più intrappolati in questo recinto del «lavoro dannato» ci sono, appunto, i giovani. Per di più, puntualmente accusati di non aver voglia di lavorare.
Nel libro cito una famosa intervista allo chef Antonino Cannavacciuolo, che in qualche modo elogiava il fatto di essere stato schiaffeggiato dal suo capo quando era giovane. Ecco, questa retorica del sacrificio, quasi un elogio della sofferenza silenziosa che torna puntualmente, è tossica e diventa pure un assist per chi vuole sfruttare il lavoro e compiere violazioni dei diritti. Per fortuna, oggi i giovani hanno capito che alcune soglie non andrebbero toccate e superate. E quindi fanno bene a dire di no. O comunque, anche se dicono di sì, sanno che non è questo il modo giusto di lavorare e di fare carriera.

Si vedono gli anticorpi contro il «lavoro dannato»?
Molti giovani hanno smesso di accettare certe condizioni. Oppure, se fanno i camerieri a 4 euro l’ora, sono consapevoli che non è giusto che sia così. Forse la consapevolezza è un primo passo per creare un approccio nuovo. Iniziare a chiamare le cose con il loro nome e a denunciarle può essere un primo passo. Oggi si parla tanto di sostenibilità, ma serva una nuova consapevolezza di quello che non è sostenibile anche sul lavoro. E noi consumatori possiamo avere un ruolo.

Come?
Prendiamo i vegani, che sono molto attenti a tutto quello che mangiano, a come viene prodotto. Io dico: “Perché non diventiamo anche vegani del lavoro?”. Perché non controlliamo che tipo di lavoro c’è dietro quello che consumiamo? Ci indigniamo per questo e per quello, poi però compriamo una maglietta a tre euro, anzi la ordiniamo online e la facciamo arrivare a casa. Ma chi paga per quello che risparmiamo? Perché è chiaro che a quel prezzo manca qualcosa. Ecco perché dovremmo cominciare a diventare “vegani del lavoro”: quando compriamo un servizio, un prodotto o scegliamo il ristorante, informiamoci e iniziamo a scartare chi chiaramente sta sfruttando i lavoratori.

E se, quando ci sediamo al ristorante, oltre al menù, chiedessimo anche il Durc di cuochi, camerieri e lavapiatti? Non sarebbe bello trovare, in coda alla lista degli allergeni, anche qualche riga sullo stipendio di chi cucinerà e servirà i piatti che mangeremo?

 

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