Sappiamo poco o nulla di intelligenza artificiale. Eppure tutti, ovunque, parlano di intelligenza artificiale. Soprattutto degli impatti sul mondo del lavoro. Dai convegni ai giornali, il più delle volte non si fa altro che ripetere le solite due o tre nozioni e previsioni, elencando «rischi» e «opportunità», con una classifica delle professioni più «in pericolo» e l’immancabile necessità di aggiornare le competenze.
Si è appena concluso a Cagliari il G7 Lavoro e indovinate di cosa si è parlato? Sì, di intelligenza artificiale.
Cronache da Cagliari I ministri delle sette grandi potenze del mondo hanno prodotto un “Piano d’azione sull’intelligenza artificiale”. La ministra del Lavoro italiana Marina Calderone l’ha chiamata “Dichiarazione di Cagliari” (qui il testo), forse per sottolineare la centralità della città in cui è nata. Ma il documento altro non è che una lista di linee guida – molto teoriche e poco pratiche – su come affrontare l’impatto dell’Ai, con un elenco di buoni propositi che andranno poi calati nella realtà dei singoli Paesi. E soprattutto nel mercato dell’intelligenza artificiale, che certamente corre molto più veloce dei lenti rituali da G7.
Il governo italiano ha presentato pure un disegno di legge, all’esame del Parlamento. E il ministero del Lavoro costituirà un «Osservatorio sull’intelligenza artificiale». Poi, se ci sarà necessità di intervenire con nuove regole, sarà fatto anche quello, ha detto Calderone a Cagliari, ripetendo come un mantra la necessità di un «approccio umanocentrico» all’Ai.
Poco intelligenti Al di là degli annunci e delle formule vuote da G7, però, la verità è che in Italia quasi nessuno sa cosa siano davvero l’Ai, il machine learning, le reti neurali, il Natural Language Processing ecc. Solo il 45,8 per cento degli italiani possiede a malapena le competenze digitali di base. Secondo Confartigianato, sul mercato mancano trecentosessantaduemila specialisti capaci di gestire l’intelligenza artificiale. Tra le piccole e medie imprese italiane solo il 18 per cento ha all’attivo – almeno al livello di sperimentazione – un progetto di intelligenza artificiale. Numeri piccolissimi anche nella pubblica amministrazione. I più attivi sembrerebbero gli studi professionali, il 70 per cento dei quali avrebbe avviato iniziative per implementare l’Ai.
Gli esposti E forse non è un caso, visto che l’Ai è connessa con le abilità cognitive. E le occupazioni più «esposte», anche in termini positivi, sono proprio quelle dove è maggiore il loro utilizzo.
Lo ha dimostrato un gruppo di ricercatori ed economisti italiani, che si è concentrato sulle capacità umane utilizzate nelle varie professioni, per stabilire il grado di esposizione all’Ai. Ad esempio, per fare l’avvocato è necessario saper «ordinare le informazioni». E poiché l’Ai è in grado di interagire in misura elevata con questa abilità, un avvocato viene considerato molto esposto. Il che non implica la sostituzione di un legale con la tecnologia, ma una «interrelazione», che può tradursi anche in vantaggi in termini di maggiore produttività.
D’altronde, secondo l’“Artificial Intelligence Index Report 2024” dell’Università di Stanford, l’intelligenza artificiale ha già superato le prestazioni umane in molte abilità, dalla comprensione testuale di base alla classificazione delle immagini. Liberandoci quindi da attività routinarie e noiose, facendoci risparmiare tempo e fatica e rendendo il lavoro intellettivo di maggiore qualità.
La Harvard Business School ha fatto una ricerca nel mondo dei consulenti ed è venuto fuori che quelli con accesso a ChatGpt-4 hanno aumentato la produttività del 12,2 per cento, la velocità del 25,1 per cento e la qualità del lavoro del 40 per cento.
E il Financial Times ha raccontato che molti studi legali stanno usando l’Ai per revisionare faldoni di documenti, in modo da avere più tempo e poter aumentare il lavoro pro bono.
Visto dalla sala stampa Un esempio: nel corso del G7 di Cagliari, noi giornalisti in sala stampa registravamo con gli smartphone le interviste e le dichiarazioni di ministri, economisti ed esperti. Poi, grazie ai programmi di Ai per la trascrizione audio-scritto, in pochi minuti avevamo a disposizione il testo delle dichiarazioni esatte da virgolettare e inserire nei nostri articoli. Qualcuno, si forgiava addirittura di avere un software che organizzava il discorso per punti. In alternativa, avremmo sprecato molto tempo a sbobinare gli audio. O, prendendo appunti a mano (qualcuno che lo fa ancora c’è), non saremmo stati così precisi nel riportare le dichiarazioni.
Non vuole dire che facevamo copia-incolla del testo, anche perché in un caso, ad esempio, l’Ai aveva trascritto una parolaccia che naturalmente l’economista intervistato non aveva pronunciato. Ma in questo modo avevamo più tempo da dedicare alla scrittura degli articoli, sentendo più fonti e curando la scrittura.
Sostituiscimi «Spero che l’intelligenza artificiale mi rubi al più presto il lavoro. Non quello che vedete voi, frutto del mio raffinatissimo intelletto, dell’esperienza di vita e di crescita unica e personale», ha scritto Raffaella Silvestri nella sua newsletter Velluto, «ma il lavoro che ho fatto per tanti anni e ultimamente ho ricominciato a fare per il semplice motivo che il lavoro raffinatissimo non paga abbastanza».
E qui si apre poi il lungo capitolo del salario. Perché se l’Ai ci rende più produttivi, allora le figure professionali più coinvolte dovrebbero registrare anche un aumento degli stipendi. Vedremo.
Ps: Per capire qualcosa in più di intelligenza artificiale, prendetevi un’ora e mezzo e ascoltate questa puntata del podcast di Daniele Rielli che intervista Nello Cristianini, professore all’università di Bath, uno dei maggiori esperti di reti neurali e machine learning.
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