Lucenti, talvolta tenere e soffici, altre volte croccanti, ma sempre e comunque succulente. Da quasi trent’anni, le pietanze che appaiono negli anime di Hayao Miyazaki e dello Studio Ghibli, di cui è fondatore, ci riempiono di desiderio: quello di averle davanti a noi – tutte – calde e avvolte dalla giusta quantità di vapore. Poco importa se questo significasse venire trasformati in maiali, come accade ai genitori della piccola Chihiro ne “La città incantata” (2003). Queste scene ci affascinano e si insinuano nella nostra memoria, cariche come sono di bontà e gioia. Abbiamo imparato a conoscerlo bene, il caro Miyazaki: tutto ciò che esce dalle sue matite deriva da una dimensione altra, in cui la sua infanzia si mescola alla sua fantasia. Impossibile dire se sia più l’una o l’altra ad avere maggior peso.
La sua capacità di emozionare, di raccontare con semplicità la complessità degli universi interiori (ma anche fisici) è ciò che ha conquistato intere generazioni, grandi e piccoli. Artista, regista, racconta storie, con quel fare da nonno un po’ burbero, di poche parole (sono esilaranti le riprese in cui lo si vede interagire nello studio con i suoi collaboratori e dipendenti) ma che vanno dritte al punto.
Dalle meravigliose tavole definitive – che rifiutano ogni possibile approccio alla AI, nessun dettaglio, nessun elemento appare senza essere che ci sia una motivazione attentamente valutata e discussa. Né un fiore, né un filo d’erba, né un cappello, né una lacrima. Nemmeno un piatto cucinato: già perché a quell’elenco di caratteristiche di Miyazaki possiamo aggiungere anche “cuoco”. Certo, non nel vero senso del termine, ma con un tocco di magia, proprio come l’apprendista strega di “Kiki – Consegne a domicilio” del 1989.
A Miyazaki va riconosciuta la grande capacità di creare dei veri e propri miraggi sensoriali, piatti che vengono preparati con amore da madri, padri, nonni, amici o gentili sconosciuti.
Seguiamo allora le loro mani afferrare gli ingredienti, perlopiù popolari, affettarli e sminuzzarli sapientemente con il coltello – per quel pizzico di asmr che ci fa sentire ancor più tranquilli e rilassati – e poi dritti in pentola, a cuocere lentamente, con gli odori che da quel mondo ci raggiungono fino a qua, rincuorandoci, mentre le papille gustative fremono di fronte alla potenza dell’immaginazione.
Un’espressività riconosciuta e celebrata anche dallo stesso Studio Ghibli, che nel 2017 ha organizzato nell’omonimo museo di Mitaka una mostra intitolata “Taberu wo Kaku” (letteralmente “Disegno che mangia”) e da autori di libri come Barbara Rossi, Azuki e Andie Ho che nel nuovo libro “Studio Ghibli Bento Cookbook” (Insight Edition) hanno ragionato sulle ricette miyazakyesche che meglio si adattano ai pranzi da schiscetta.
Salvezza, dolcezza, condivisione, generosità o più semplicemente amore: nei film di Miyazaki, il cibo diventa il veicolo di tutto questo. In fondo, per citare ancora una volta “La città incantata”, è proprio tramite un onigiri donatole dal giovane Haku che Chihiro, dopo essere entrata accidentalmente in un regno soprannaturale, recupera le sue forze e si salva dalla maledizione che ha colpito i genitori. E in effetti lo spaesamento è una condizione comune nei personaggi dell’animatore, spinti dal destino a superare i propri limiti e le proprie paure. Capita anche alla solitaria Sophie de “Il Castello Errante di Howl” (2004), finché questa non riesce a farsi assumere come governante dal temuto e affascinante mago Howl e assistiamo a un momento di grande tenerezza: la preparazione della colazione a base di pane, uova e pancetta. In un gioco di padelle che vengono poggiate sul fuoco, le loro mani si sfiorano. Galeotta fu una colazione europea…
Va sottolineato che il Miyazaki bambino ha conosciuto un Giappone profondamente segnato dai colpi della seconda guerra mondiale, dove chiaramente il cibo era diventato un bene prezioso, uno dei pochi tramiti per celebrare il solido legame non solo con la famiglia ma anche con gli amici e la comunità. Nella cultura giapponese, infatti, il cibo non è visto solo come nutrimento, ma anche come un modo per esprimere cura verso gli altri e la tradizione.
Questo ha in qualche modo influenzato Miyazaki e il suo immaginario e anni più tardi, nel film “Ponyo” (2009) lo avrebbe spinto a trasformare la preparazione di una zuppa di ramen in un modo per esprimere le emozioni di impazienza e gioia che si provano di fronte a qualcosa di nuovo. Sì perché Ponyo, la protagonista di questa meravigliosa storia, è figlia di un mago dei mari e non conosce il mondo terrestre, e infatti mangia solo una cosa: prosciutto. Così, la madre di Sōsuke, un bambino di cinque anni diventato suo amico, le prepara questa popolare zuppa – tradizionalmente consumata dai giapponesi ai banconi delle yatai – usando però la pasta istantanea, a cui aggiunge uova alla coque, carne di maiale e cipolle verdi, per farla sembrare più sofisticata.
A volte le bocche dei personaggi si spalancano, fameliche, divorando tutto con mani e bacchette, tra espressioni e movenze buffe; altre volte restano socchiuse, assaporando ogni boccone con grande compostezza e delicatezza. A non mancare mai è la forte sensazione che il cibo stia nutrendo qualcosa di più grande e importante dei loro stomaci.
Questa miriade di piatti, che nella nostra immaginazione si impilano vuoti come nel retro di una vera cucina, non viene creata solamente per giocare con i nostri sensi e la nostra immaginazione. Rivestono infatti un ruolo fondamentale nella stessa trama, segnando a volte dei momenti decisivi nell’evoluzione dei personaggi. Pensiamo, ad esempio, al legame tra i due protagonisti di “Laputa – Castello nel cielo” (2003), Pazu e Sheeta, che si rafforza dopo aver condiviso un semplice uovo fritto su un toast, o al momento di tranquillità che Mahito de “Il Ragazzo e l’Airone” (2023) si concede dopo gli eventi misteriosi e intensi vissuti fino a quel momento, per gustarsi una fetta di pane con la marmellata, splendente come la rugiada. È una sorta di tregua prima di affrontare le nuove sfide che lo aspettano.
Per disegnare queste pietanze, Studio Ghibli e lo stesso Miyazaki, sembrano aver attinto dai più grandi manuali di grafica pubblicitaria: colori caldi e vibranti giocano con la nostra psiche e solleticano i nostri istinti primordiali. Quando la tenera nonnina di “Kiki – Consegne a domicilio” si dedica con cura alla preparazione del pesce in crosta di pane per il suo nipotino e questo lo rifiuta, ci fa raccapricciare non solo per la sua insensibilità ma anche perché, caspita, aveva proprio una bella faccia.
Ma perché ci sembrano così appetitosi? In un Ama (Ask Me Anything) del 2021 un utente di Twitter ha posto questa stessa domanda allo Studio Ghibli. Toshio Suzuki, produttore ed ex presidente dello studio, ha risposto: «Perché sono gli stessi che Miyazaki prepara per sé», confermando, ancora una volta, che i film di Miyazaki sono prima di tutto vita, esperienza, una connessione tra passato, tradizione e presente.
Nella quotidianità, piatti e preparazioni legati alla cultura e alla storia spesso finiscono – come altre cose – per essere dati per scontati. Ma quando questi vengono raccontati attraverso il cinema, riacquistano un valore profondo, trasformandosi in qualcosa di importante per intere comunità. E così continuano a viaggiare, attraversando confini geografici e culture, finché non assumono nuovi significati, trasformandosi in modi sempre diversi, ma ugualmente importanti… e magici.