Nel nostro ultimo viaggio a Tokyo (il primo per Gastronomika) abbiamo avuto modo di provare in maniera estensiva piatti, ricette, usanze, tecniche proprie della cucina giapponese. Un vero e proprio universo nel quale non basterebbe un mese di permanenza per poter cogliere appieno – da stranieri – tutte le sfumature. Ci siamo impegnati nel tentativo di gettare uno sguardo non solo su Tokyo ma anche su altre città minori e indubbiamente ci sono alcuni aspetti del cibo, della convivialità, della tavola in senso ampio che ci sono sembrati ricorrenti e lampanti. L’abbondanza e la diversità di bento – i classici cofanetti pre-composti che racchiudono, pronti da mangiare, una serie variegata di specialità locali – sono bellissimi, geometricamente perfetti e con una qualità media particolarmente alta. Il Giappone è uno dei migliori Paesi al mondo dove mangiare street food di livello a prezzi modici.
In questo momento storico in cui per noi italiani il cambio risulta particolarmente favorevole, ne usciamo sicuramente avvantaggiati: ma nella media, a prescindere dalla moneta di cambio, la qualità è superiore. Parliamo in senso ampio, a partire dai cibi pronti dei supermercati di catena, a quelli dei piccoli drug store (modello 7Eleven americano per intenderci) fino ad arrivare alle piccole cucine su strada con tre o quattro posti al banco e una singola persona intenta a cucinare. Gli equivalenti dei panini tristi e rinsecchiti dei nostri autogrill non sono minimamente rintracciabili e anzi, ovunque posiate lo sguardo, il cibo confezionato è bello, attraente, colorato, fresco.
Trovate pesci interi sfilettati e freschi di giornata serviti in confezioni singole come un sashimi, morbide frittatine ripiene, una varietà esagerata di fritture (pollo, manzo, pesciolini interi, merluzzo, polpette di carne o pesce, gamberi, ostriche, verdure), tempura vegetariani, stufati, ramen, nighiri, onighiri, tofu, insomma non c’è veramente limite di scelta. La varietà non manca e le montagne di cibo in qualunque shopping mall sono davvero impressionanti (anche troppo). Il lato negativo della medaglia è che per qualunque cosa citata sopra è previsto un involucro di plastica per il quale il Giappone ancora non sembra avere trovato soluzioni a tappeto sul territorio nazionale e ancora oggi sembrano esserci grandi difficoltà nei processi di smaltimento di determinati materiali.
Tuttavia, una delle opportunità migliori per entrare in contatto con la gastronomia locale parte proprio dai posti più semplici, dai banconi disordinati con le lavagnette scarabocchiate fuori, dove con una sola portata potrete già crogiolarvi in sapori autentici e assolutamente diversi da quelli proposti nei ristoranti giapponesi delle nostre città. Provate, per un attimo, ad astrarvi dall’idea italiana del sushi che, per giunta, molto spesso viene preparato da cinesi e non da giapponesi stessi.
Ormai è sdoganata l’immagine del Sol Levante che mangia solo sushi o solo sashimi, ma districarsi tra i tanti stili di cucina proposti non è banale. Qui i vari format non si mescolano tra loro e, forse, scegliere che cosa mangiare sembra quasi più facile. I ristoranti di tempura celebrano questa cottura in tutto e per tutto e non è previsto che si serva sushi o shabu shabu (il pentolone di brodo bollente in cui vengono cotte sottilissime fettine di carne di Kobe e verdure di stagione).
Chi si specializza nel teppanyaki – e quindi nella cottura alla griglia eseguita da uno chef dedicato ad ogni tavolo/coppia di clienti – non prevede altri menu e anche il ristorante è studiato e realizzato con un layout funzionale alla proposta. Poi ci sono gli indirizzi per i ramen, quelli dedicati ai gyoza o agli yakitori. Quando si parla di sushi in genere si fa riferimento ai ristoranti organizzati in banconi da una decina di posti in media, dove viene servito un percorso omakase. Con questa formula – ormai anche troppo sdoganata in Occidente – lo chef propone un menu che varia a seconda del territorio, della stagione, di una specifica tradizione legata all’insegna o al posto, degli arrivi di mercato e quindi anche dalla combinazione di tutti questi elementi.
I clienti si affidano agli chef – omakase significa appunto questo “fai tu”– indicando solo eventuali allergie o intolleranze. e il percorso degustazione si svolge quasi in contemporanea per gli ospiti (o con un leggero scarto temporale tra una portata e l’altra) in un unico turno di servizio. Non si scende quasi mai sotto alle cinque referenze, che sono in tutti i casi piccoli assaggi, dove alcuni momenti sono effettivamente ricorrenti. Si inizia con una zuppa (vegetale o stagionale), si passa poi ai crudi – ed è qui che in genere vengono inseriti piatti con uova di storione o salmone, si arriva quindi alla prima portata di pesce ricettata in qualche modo. Servito alla fiamma, appena appena grigliato oppure scottato solo dalla parte della pelle. Successivamente si passa a una portata fritta, stufata o in brodo.
La carne, se presente, arriva in genere verso la fine e magari accompagnata da del riso in bianco. Il riso, in qualunque pasto della giornata, non manca mai. La cena si conclude con un dashi o una zuppa di miso e una tazza di tè. Non avendo una tradizione così radicata sulla pasticceria, il dolce c’è ma senza troppa ricerca. Nella maggior parte dei casi si tratta di frutta sciroppata o accompagnata da gelatine traballanti, eventuali dolcetti di riso (i mochi esistono per davvero e sono incredibilmente buoni) o fagioli rossi in marmellata o caramellati e camuffati in qualche morbido impasto. Questo schema – che parte con un brodo caldo e finisce con una tazza di tè caldo – è ricorrente e si svolge in maniera ridotta ma analoga anche a casa nelle famiglie più tradizionaliste.
Se avete sempre pensato al Giappone come a un Paese ordinato e rigoroso, dovete pensare che anche la cucina è regolata da ritmi, schemi e tradizioni che difficilmente subiscono modifiche. Anche negli indirizzi più moderni, il susseguirsi delle portate segue uno schema pressoché sempre uguale e che cerca di mantenere vivo un heritage culturale tramandato da secoli. Un modo di mangiare totalmente diverso dal nostro e per molti aspetti decisamente più leggero, molto più ricco di proteine, forse per alcuni più monotono ma non privo di complessità e difficoltà tecniche ed esecutive.
Senza ombra di dubbio il Giappone vanta una cucina totalmente incentrata sul prodotto, sulla qualità e varietà della materia prima, sul taglio e servizio della stessa. Come se ogni lavorazione, anche in più passaggi, di un singolo ingrediente fosse una ricerca prolungata, verticale e profonda sullo stesso.
Courtesy Markus Winkler, E via Unsplansh, Kaori Kubota, Antonio Prado (cover image)