La vaniglia è un’orchidea. Anche se la maggior parte dei suoi estimatori la identifica con una sottile stringa nera, definita nelle ricette baccello o bacca, o semplicemente con un aroma fin troppo dolce che si può trovare nei biscotti come nel bagno schiuma o nei profumatori per ambiente, in natura, la pianta della vaniglia ha foglie carnose, verde scuro e lucidissime, l’andamento rampicante di una liana e fiori di colore bianco, verdastro o giallo pallido, inconfondibilmente a forma di orchidea. Ne esistono circa 110 specie conosciute, ma quella che si trova in commercio ha un suo nome botanico, Vanilla planifolia, e un suo habitat, in Messico. In forma di pianta si può anche acquistare e coltivare in casa, riservandole le stesse cure di qualsiasi altra orchidea: temperature calde, giusta umidità, fertilizzante specifico.
Ma avere una decorativa ed esotica pianta di vaniglia e ricavarne i frutti non è affatto la stessa cosa. Ecco perché la vaniglia, anche se intensamente coltivata ai tropici, è mediamente cara – al supermercato un chilo può costare da 1.500 ai 3.000 euro per le coltivazioni biologiche – ed ecco perché la pianta è classificata tra le specie in pericolo.
La pianta della vaniglia cresce spontaneamente solo nelle foreste tropicali, e infatti la sua coltivazione è diffusa nelle regioni equatoriali del mondo, dal Madagascar, che ne è il maggior produttore, all’Isola della Riunione, all’Indonesia, alle Isole Comore, in India, nello stato del Kerala, in Uganda, in Papua Nuova Guinea, alle isole Tonga e in Cina, nella provincia di Yunnan.
Tuttavia solo nel suo luogo natio, dove è stata trovata per la prima volta, in Messico, la fecondazione che porta allo sviluppo dei fiori e dei semi avviene naturalmente grazie all’ape Melipona, una piccola ape senza pungiglione originaria della regione. Animaletto interessante, perché produttore di un miele particolare e raro, di resa molto bassa, dato che bisogna rompere o schiacciare il favo per permettere al liquido di uscire, ma di qualità superiore.
Per più di due secoli, nel diciassettesimo e nel diciottesimo secolo, il Messico, in particolare la regione di Veracruz, conservò il monopolio della vaniglia, di cui una popolazione amerinda, i Totonachi, rimasero primi produttori fino alla metà del diciannovesimo secolo.
La bacca, o baccello, richiamata anche dal nome della pianta, che deriva dallo spagnolo vaina (vagina in latino), ovvero guaina, è in effetti una capsula e ne è il frutto. Ottenne uno straordinario successo in Europa, soprattutto alla corte francese del Re Sole, dove Madame Montespan la usava in abbondanza per profumare l’acqua del bagno. Tanto che il suo regale amante, Luigi XIV, per assicurarsene la produzione, decise di introdurla sull’Isola Bourbon (oggi Riunione). Un tentativo destinato a fallire. Così come andarono a vuoto anche tutti gli altri sforzi per espanderne la coltivazione. All’epoca si ignorava, infatti, il fondamentale ruolo delle api autoctone messicane nel fecondare i fiori, che hanno una parte maschile e una parte femminile che devono essere messe in contatto per permettere lo sviluppo dei frutti.
Infine, si tentò una sorta di fecondazione eterologa: la prima impollinazione artificiale dei fiori di vaniglia fu effettuata nel 1836 nel Giardino Botanico di Liegi dal naturalista belga Charles Morren, e poi, nel 1837, dall’orticultore francese Joseph Henri François Neumann. Ma il procedimento ancora oggi in uso fu messo a punto, nel 1841, da uno schiavo dodicenne di Bourbon, Edmond, che quasi per gioco provò a usare un bastoncino per impollinare le orchidee del suo padrone, sollevando il rostello, il lembo che separa l’antera maschio dallo stigma femminile del fiore.
Il merito della scoperta, al momento, se lo prese un botanico francese, Jean Michel Claude Richard, ma con l’abolizione della schiavitù, nel 1848, a Edmond fu riconosciuto il suo contributo ed ebbe in premio un cognome paradossale, Albius, bianco, forse, come il fiore della vaniglia. Questo non cambiò però il suo destino, visse di lavori precari, finì anche in carcere, e morì in povertà, mentre la vaniglia si diffondeva nel mondo a prezzi diventati finalmente abbordabili.
Dall’isola, la coltivazione fu portata nel luogo più vicino, il Madagascar, dove le prime piantagioni vennero create sull’isola di Nosy Be e si estesero poi a tutto il versante orientale della “grande terra”.
Malgrado la diffusione, la vaniglia è una pianta fragile, affidata per la sua sopravvivenza all’impollinazione manuale, dato che i semi, piccolissimi, sono vulnerabili a funghi e batteri e difficilmente germogliano. Anche l’impollinazione, peraltro, non è semplice perché dev’essere sempre eseguita da personale esperto e da fiore a fiore, solo di mattina, dato che i fiori vivono appena qualche ora e in assenza di umidità, perché la pioggia impedisce che sboccino.
Anche il processo di lavorazione, del resto, è lungo e complesso perché il frutto fresco è un baccello verde e inodore e occorre una preparazione minuziosa e metodica per renderlo la spezia profumata che conosciamo. Le basi furono, ovviamente, poste in Messico, dove nacque il metodo più semplice, ma anche meno soddisfacente, detto “preparazione diretta”. Consiste, semplicemente, nel lasciar maturare il baccello alternandone l’esposizione all’ombra e al sole. La “preparazione indiretta”, capace di sviluppare tutte le potenzialità dell’aroma, implica un trauma violento, detto killing, al baccello per arrestarne la vita vegetativa, seguito da una serie di operazioni di trasformazione, di essiccazione e di smistamento che durano una decina di mesi.
Questa “uccisione” del baccello si può compiere immergendolo in acqua calda, secondo il metodo elaborato da Ernest Loupy nel 1851, o con metodi più sofisticati e moderni, passandolo dal forno al freddo, ai raggi infrarossi, all’alcool.
Il risultato finale, il “bastoncino” di vaniglia che viene messo in vendita, può essere più o meno pregiato e aromatico, a seconda delle varietà e della lavorazione, ma è comunque un prodotto di fascia alta e di prezzo piuttosto elevato, date le obiettive criticità della sua coltivazione, non ultimi i cicloni tropicali.
Poiché sono circa diciottomila in tutto il mondo i prodotti a base di vaniglia, siano alimentari o cosmetici, fin dal 1800 si è avvertita l’esigenza di trovare un prodotto di sintesi in grado di sostituirla, ed è stata creata la vanillina, un aroma artificiale più semplice ed economico da produrre su larga scala.
Ai suoi esordi, nel 1874, i chimici tedeschi Wilhelm Haarmann e Ferdinand Tiemann la sintetizzarono per la prima volta dalla coniferina, una sostanza ricavata dalla resina del pino; verso la fine del secolo, per rendere ancora più economico il processo, nella produzione industriale si cominciò a utilizzare l’eugenolo, un liquido ricavato dall’olio di chiodi di garofano. Negli anni Trenta del Novecento questo fu a sua volta sostituito dalla lignina, prodotta dagli scarti della lavorazione della cellulosa utilizzata nell’industria della carta. Ma la storia continua, perché i successivi sviluppi dell’industria della carta resero gli scarti sempre meno convenienti e s’iniziò a impiegare il guaiacolo, un composto ricavato prima dalla pirolisi del legno e del carbone, poi dal benzene ottenuto dalla distillazione del petrolio.
Oggi si stima che meno dell’un per cento del mercato mondiale dell’aroma di vaniglia provenga dai frutti della pianta. La buona notizia, si fa per dire, è che nessuno se ne accorge perché, secondo numerose e ripetute indagini di mercato e prove pratiche, la maggior parte dei consumatori, nonché di addetti ai lavori come chef e pasticceri, soprattutto quando si tratta di prodotti da forno, non è in grado di percepire la differenza.