Corbezzoli, sorbole e giuggiole sono frutti antichi, quasi dimenticati, accomunati oltre che dalla loro stagionalità autunnale, dall’essere oggetto di modi di dire ormai piuttosto desueti, ma pittoreschi. Ovvero, nell’ordine: «Corbezzoli!», «Sorbole!» – o anche «Sciorbole!», dato che è un’espressione tipicamente bolognese – e «Andare in brodo di giuggiole».
Se le prime due sono in genere esclamazioni di stupore, vero o simulato, una specie di «Ah, però», la terza allude a un ipotetico stato di beatitudine legato al brodo delle giuggiole.
Ricordarsene è anche un’occasione per scoprire frutta di stagione meno nota e scontata. Il corbezzolo, detto anche albatro o arbuto, è una pianta mediterranea molto adattabile, che si estende lungo le coste atlantiche fino all’Irlanda, fiorisce in autunno-inverno, tra settembre e dicembre, e fruttifica da agosto a novembre dell’anno successivo. Ha quindi la particolarità, rara, di portare contemporaneamente i fiori e i frutti, e questo accostamento cromatico, il rosso dei frutti, il bianco dei fiori e il verde delle foglie, ne ha fatto, fin dal Risorgimento, uno dei simboli patri italiani.
Il suo nome in greco antico è kòmaros e da questo derivano i bizzarri nomi con cui i suoi frutti sono noti in alcuni dialetti: cocomeri, nelle Marche, cacumbari in Calabria, cuccumarre nel Lazio. Anche il Monte Conero, il promontorio alle spalle di Ancona, prende nome dai tanti corbezzoli che vi crescono.
Pianta piccola, ma generosa: dal legno si ottiene ottimo carbone, i frutti, asprigni e astringenti, hanno mille impieghi e si possono consumare crudi al naturale, canditi, sotto alcol, in macedonia con altri frutti di bosco, con zucchero e vino moscato, o utilizzare per la preparazione di marmellate, gelatine, sciroppi, fermentati o distillati. Anche se la preparazione più rinomata è il miele di corbezzoli, prodotto soprattutto in Sardegna e Corsica, e ottimo per esaltare il sapore del formaggio pecorino e i dolci tradizionali sardi come le seadas.
Fanno anche bene, i corbezzoli, perché hanno proprietà antinfiammatorie, antisettiche, depurative e diuretiche.
Detto tutto questo, perché «Corbezzoli!»? In effetti, la pianta, e i frutti, non c’entrano affatto, sarebbe un eufemismo della parola corbelli, termine toscano per indicare i testicoli, utilizzato in tutta una serie di frasi idiomatiche (avere i corbelli pieni – essere stufi, averne abbastanza –, avere qualcuno sui corbelli, rompere i corbelli…).
Le sorbole sono, come è intuibile, il frutto del sorbo, per l’esattezza del sorbus domestica e hanno avuto l’onore di essere citate da Dante Alighieri nell’Inferno: «…ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi si disconvien fruttare al dolce fico», scriveva, contrapponendo il gusto aspro delle sorbole a quello dolce dei fichi.
La pianta è spontanea, tenace e ornamentale, molto utilizzata nei giardini, mentre i frutti, simili a piccole pere, o mele, gialli e rossi quando sono maturi, spuntano solo dopo i primi quindici anni di vita dell’albero e non vanno mangiate subito, perché sono aspre e sgradevoli. Dopo un ulteriore processo di maturazione sulla paglia, o al sole, detto ammezzimento, diventano però dolcissime.
Molto apprezzate dagli antichi Romani, che le consumavano sott’aceto o con il vino, accompagnate dalla credenza che tenessero lontano gli spiriti maligni e le streghe, piene di vitamina C, oggi sono diventate rarissime, persino in Emilia dove il loro nome è usato come intercalare. Se si ha la fortuna di averne un albero in giardino, o di trovarle da qualche fruttivendolo di nicchia, si possono accompagnare al vino o usarle per confezionare sidro, liquori (come il sorbolino), confetture, salse e conserve. Le salse, in particolare quelle agrodolci, sono perfette per la carne o i formaggi.
Anche il brodo di giuggiole non è in effetti un brodo, ma un liquore, che può anche combinare diversi frutti autunnali, e ha origini antichissime Alcuni studiosi ipotizzano persino che il frutto del loto citato da Omero nel nono libro dell’Odissea, che donò l’oblio agli uomini di Ulisse sbarcati sull’isola dei Lotofagi, potesse in realtà essere un giuggiolo selvatico, e dunque l’incantesimo narrato sarebbe stato provocato dalla bevanda alcolica preparata con i frutti della pianta. Di certo, il brodo di giuggiole era amato dai Gonzaga, che nella loro residenza estiva sul lago di Garda lo producevano e lo offrivano agli ospiti. Da qui, il detto popolare «andare in brodo di giuggiole», certificato per la prima volta nel 1612, nel primo vocabolario di lingua italiana scritto dall’Accademia della Crusca.
In quanto al giuggiolo, è un piccolo arbusto di provenienza asiatica, che nel corso dei secoli si è diffuso nell’area mediterranea e in Italia, ed è coltivato anche a scopi ornamentali. I suoi frutti, verdi da acerbi, rossicci quando sono maturi, freschi hanno un sapore dolce leggermente acidulo, che ricorda quello della mela, ma si possono anche conservare per lungo tempo essiccandoli o mettendoli sotto spirito, e prendono allora un gusto che ricorda quello del dattero. Le giuggiole assomigliano ai datteri anche per le loro caratteristiche: sono molto ricche in vitamina A e C, ferro, calcio e zuccheri e si prestano per preparare confetture e sciroppi, o come ingrediente per farcire dolci secchi e biscotti.