Sempre più spesso mi trovo a riflettere sull’accezione positiva dello stupore, un’emozione che in me – ma credo anche in molte altre persone – percepisco in costante rischio di svilimento. In un periodo come quello attuale è purtroppo l’orrore a catturare maggiormente la nostra attenzione, influenzando profondamente la nostra emotività. A vent’anni parafrasavo Schopenhauer, ero fermamente convinta che «ciascuno confonde i limiti del proprio campo visivo per i confini del mondo». Credevo che lo stupore derivasse esclusivamente dalla capacità del singolo di spingersi oltre la propria comfort zone, non solo mentale ma anche fisica. Dieci anni più tardi, non ne sono più così sicura.
Mi chiedo se, oltre quei “confini” – delle mappe che esistono dentro e fuori le nostre teste – sia ancora possibile stupirci in un modo trasformativo. Se di fronte alla natura e a ciò che essa contiene possiamo ancora provare meraviglia senza sentirci sopraffatti dalle implicazioni legate al suo fragile stato di salute. Viviamo gli anni dell’eco-ansia, una condizione che si teme finché non ci si ritrova immersi in essa. Il rapporto tra l’uomo e il mondo naturale è ormai così compromesso che, persino di fronte a un narvalo o al fiore più grande del mondo, temo che finirei per provare malinconia. La meraviglia che un tempo la natura suscitava sembra oggi irrimediabilmente velata, come se potessimo goderne solo parzialmente, consapevoli delle responsabilità che il nostro sguardo porta con sé: corruzione, manipolazione, distruzione. È un fascino corrotto, mai completamente libero.
Per questo, quando lo scorso ottobre ho visto Bestiari, Erbari, Lapidari, il nuovo progetto della coppia di documentaristi Massimo D’Anolfi e Martina Parenti, presentato alla Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia come un documentario “enciclopedia”, ho avuto la sensazione di trovarmi davanti a qualcosa di unico e profondamente necessario, che abbraccia le ombre del nostro rapporto con la natura unendo pensiero razionale ed emotivo.
«Crediamo che il nostro compito sia quello di “re-inventare” una visione e una rappresentazione del reale, cercando di instaurare relazioni vitali tra gli elementi delle inquadrature. Così facendo, non cerchiamo il “reale”, ma la sua rappresentatività e l’occasione per raccogliere racconti, storie e riflessioni su di noi umani», hanno detto Massimo D’Anolfi e Martina Parenti.
Bestiari, Erbari, Lapidari è uno scrigno di immagini – nuove e d’archivio – che si susseguono con grande abilità, mettendo a fuoco tutte le emozioni e contraddizioni che definiscono il nostro rapporto con il mondo, la natura e le creature che lo abitano. Si divide in tre atti: Bestiari esplora la rappresentazione cinematografica degli animali attraverso il found footage; Erbari osserva in modo poetico l’Orto Botanico di Padova, e Lapidari indaga il valore della pietra nella memoria collettiva. L’arte in fondo ha sempre custodito questo potere: tradurre in un “correlativo oggettivo” tutto ciò che, oltre il nostro campo visivo, è emozione.
In questo viaggio emozionale, di luci e ombre, quella di Bruno Giordano Ugolini è tra le luci più splendenti. Figlio di un botanico e insegnante di scienze naturali, Bruno, dopo essersi laureato a Padova nel 1914, ricevette l’offerta di diventare assistente di botanica, ma dovette rifiutare a causa della chiamata alle armi. «Sui campi di battaglia continuò a coltivare la passione per la botanica, giungendo a fermarsi sotto il fuoco nemico per raccogliere erbe e fiori che lo interessavano come studioso. Gli anni della guerra li trascorse sull’Adamello. Di quei luoghi conosceva tutte le vette, e tutte le strade e i boschi. Qui aveva trascorso le ore più belle, e qui lo riportò la guerra. E allora rifece quei passi, quelle strade che conosceva, cogliendo mine dove aveva coltivato fiori», si racconta nel documentario. Il 28 maggio 1917 venne ferito mortalmente. Dalla natura, alla quale tornò, Bruno raccolse circa quattrocento piante che inviava al padre, accompagnate da brevi note, poi riunite in quello che è stato chiamato l’“Erbario di guerra”.
Questa luce contrasta con altre immagini di archivio del film, in cui la natura viene manipolata, studiata, usata. «Onestamente, gli animali sono sempre “animali da usare”. Così come gli animali sono serviti da organismi modello per la pianificazione sociale umana, anche questi possono essere considerati come film modello, organismi modello per la pianificazione della nuova società moderna, dalle grandi città alle grandi istituzioni educative e governative», racconta Bestiari.
Intrecciando cultura, scienza e arte, il film evoca anche lo spirito delle Wunderkammer cinquecentesche, spazi in cui il desiderio umano di possesso si concretizzava a pieno. Nate nel Sedicesimo secolo per volere di nobili e facoltosi, queste stanze dedicate alla meraviglia erano destinate allo studio e alla contemplazione, dove arte e natura si univano fisicamente e concettualmente. Conchiglie, tigri, uova, corna, piume: oggi come ieri, la vista era il nostro culto, e possedere ciò che ammiravamo rappresentava un’illusoria forma di controllo sul mondo. Con la comparsa delle Wunderkammer, la quarta parete tra l’osservatore e il mistero del mondo si abbatté, concedendo a pochi eletti l’accesso privilegiato a un universo lontano ed esotico.
Gli oggetti erano esposti ovunque: su teche, tavoli e ripiani. Persino dai soffitti spesso pendevano coccodrilli e altre creature imbalsamate. Gli animali venivano catturati e spesso uccisi, trattati come oggetti di meraviglia piuttosto che esseri viventi con un valore intrinseco, come lo intendiamo oggi. Era un tentativo di dominare la natura, possedendone frammenti. Ogni oggetto, naturale o artificiale, contribuiva a creare un microcosmo mentale, un simbolo di potere non solo intellettuale, ma anche economico. Verso la metà del secolo, un autentico terremoto culturale scuote l’Europa: la scoperta dell’America.
La filosofia classica in poco tempo si rivelò insufficiente alla comprensione della nuova realtà. Accanto alle Wunderkammer aristocratiche, si sviluppano così le collezioni degli umanisti, per i quali piante, animali e minerali rappresentavano una risorsa fondamentale per la ricerca scientifica, per intraprendere nuove strade di pensiero fino a quel momento rimaste inesplorate. Tra questi umanisti, l’italiano Ulisse Aldrovandi, naturalista e docente di Logica e Filosofia Naturale che creò il più vasto “microcosmo di Natura” dell’epoca, raccogliendo oltre diciottomila esemplari naturalistici e archeologici, oggi custodita a Bologna.
Nel 1983 la storica dell’arte Adalgisa Lugli pubblicò il libro Natura et Mirabilia, teorizzando per la prima volta il fenomeno delle Wunderkammer, distinguendo “Naturalia” e “Mirabilia”. Con “Naturalia” si definivano gli elementi provenienti principalmente dal mondo animale, minerale, vegetale, talvolta combinati tra loro per dare forma a opere raffinate di oreficeria e arte decorativa. Con “Mirabilia”, d’altro canto, ci si riferiva agli strumenti scientifici, agli oggetti d’arte in generale, macchine e reperti bizzarri frutto dell’ingegno umano.
Lugli ci invitava a considerare le Wunderkammer come luoghi in cui soggetto e oggetto si attirano reciprocamente, mettendo lo spettatore al centro dell’esperienza. Un approccio che riecheggia, seppur con principi opposti, nelle immagini di Bestiari, Erbari, Lapidari. Le immagini di un pinguino e di un uomo che si incontrano per la prima volta davanti a una cinepresa, durante la spedizione di Roald Amundsen al Polo Sud tra il 1910 e il 1912 sono un esempio potente di questa dinamica.
Le spedizioni scientifiche e coloniali dell’epoca erano infatti spesso accompagnate da creativi e artisti, incaricati non solo di documentare le scoperte, ma anche di persuadere gli investitori a sostenerle. Gli stessi, poi, acquistavano enormi collezioni di esemplari zoologici. «La prima volta che abbiamo visto queste immagini siamo rimasti ipnotizzati. […] L’uomo avanza e il pinguino indietreggia. Il fotogramma li contiene entrambi fino a quando il pinguino, camminando all’indietro, si allontana fino a sparire», raccontano i registi.
Così, allo stesso modo, noi spettatori e spettatrici, parte attiva nel completamento del significato del documentario, ci riconnettiamo – seppur temporaneamente – alla natura. Un qualcosa che non si traduce in meraviglia, ma in una riflessione profonda e onnicomprensiva: una lenta esplorazione del nostro rapporto, passato e presente, con il mondo, ed è proprio qui che risiede il suo fascino.