Il 15 novembre scade il termine per recepire la direttiva europea sui salari minimi adeguati. Ma, a due anni dall’approvazione, la maggior parte dei Paesi membri, Italia inclusa, non ha neanche avviato l’iter di trasposizione.
Al di là dello scontro politico tra destra e sinistra sulla proposta delle opposizioni a 9 euro l’ora, in Italia non se ne parla. La discussione, al momento, è concentrata solo a livello locale, dove stanno emergendo proposte e formule di salari minimi territoriali, da Milano alla Regione Puglia. Le Acli hanno proposto pure l’introduzione di un «indice del lavoro dignitoso». Ma la direttiva va ben oltre le divisioni salario minimo sì-salario minimo no.
Cosa prevede Bruxelles indica due modi per combattere il lavoro povero: con una copertura minima dei contratti collettivi nazionali all’80 per cento o con l’introduzione del salario minimo per legge. La direttiva non impone quindi un metodo, né l’introduzione del salario minimo, né indica un importo. Ma fissa il criterio della «double decency», che prevede un salario minimo pari al 60 per cento del salario mediano lordo e al 50 per cento del salario medio lordo.
Lo stato delle cose La maggior parte dei Paesi europei ha una legislazione sul salario minimo, tranne cinque: Danimarca, Svezia, Austria, Finlandia e Italia, appunto. Tutti Paesi con tassi di copertura contrattuale tra i più elevati.
Anche Cipro, prima della direttiva, non aveva un salario minimo legale e neanche un tasso di copertura contrattuale alto (intorno al 50%). Poi, nel 2023 ha introdotto il salario minimo. Ma questa pare l’unica cosa a esser cambiata.
La direttiva non piace a tutti e l’approvazione nel 2022 è stata molto controversa, con il voto contrario di Danimarca e Svezia. A gennaio 2023, la Danimarca ha fatto anche ricorso per l’annullamento sostenendo che la retribuzione è un tema di competenza esclusiva degli Stati membri. E la Svezia è intervenuta a sostegno della contrarietà danese, anche se il governo di Stoccolma nel frattempo ha affidato a una commissione di esperti un’analisi sugli eventuali interventi necessari per il recepimento.
Come hanno spiegato in un webinar gli esperti della Fondazione Adapt, reperire informazioni su come gli Stati europei si stiano muovendo in realtà è difficile. La Confederazione europea dei sindacati, Ces, lo scorso mese ha lanciato la piattaforma online “Wage-up” che monitora i progressi nell’attuazione della direttiva, aggiornata al 14 ottobre.
Finora, solo otto Stati membri hanno approvato le leggi per adeguare le norme nazionali. In altri Stati i lavori sono ancora in corso. La Lituania è intervenuta di recente con un emendamento al Codice del lavoro. Repubblica Ceca e Ungheria si sono mosse pure. La Grecia ha presentato da poco un progetto di legge.
In Germania, Irlanda e Slovenia, i governi hanno concluso che non è necessaria alcuna azione legislativa, perché le normative interne già soddisfano i requisiti minimi fissati dall’Ue.
Il silenzio italiano L’Italia, con Francia, Portogallo, Cipro, Estonia e Malta, al momento risulta inadempiente. Molto probabilmente Roma seguirà l’esempio della Germania, considerando che il tasso di copertura dei Ccnl risulta superiore all’80 per cento. Ma dovrà comunicare comunque a Bruxelles di ritenere di essere già in linea con le prescrizioni europee.
Nel nostro Paese, in teoria, non c’è un problema di mancata copertura di contrattazione collettiva, anche se secondo molti la percentuale indicata dall’Ue come soglia minima andrebbe considerata settore per settore, visto che ci sono alcuni comparti in cui i contratti sono molto diffusi e altri in cui lo sono molto meno. Ed è lì che si annida il lavoro povero. Oltre al fatto che resta da comprendere se i contratti maggiormente utilizzati prevedano dei trattamenti salariali adeguati.
Sui circa mille contratti registrati al Cnel, quelli più rappresentativi sottoscritti da Cgil, Cisl e Uil sono solo una minima parte, ma coprono il 97 per cento dei lavoratori. Ma c’è il sospetto che le informazioni comunicate all’Inps e al ministero del Lavoro non siano le stesse.
Scorporando i dati Inps e Cnel, si scopre che sono circa 290mila i lavoratori a cui è applicato un contratto rappresentativo con un salario inferiore ai 9 euro lordi indicati dalla proposta delle opposizioni: i lavoratori più poveri si trovano nei livelli più bassi dei contratti dei multiservizi, vigilanza privata, artigianato, cooperazione, commercio. A questi si aggiungono quasi 700mila lavoratori domestici e 950mila addetti alla agricoltura.
Senza dimenticare l’alta diffusione del lavoro irregolare, discontinuo e occasionale e i part-time involontari, che sono tra le cause del lavoro povero in Italia. Per le quali, però, la contrattazione collettiva non può nulla.
Meloni, batti un colpo La legge del 21 febbraio 2024, che conferisce la delega al governo per il recepimento delle direttive europee, include anche quella sui salari minimi adeguati, anche se non vengono indicate disposizioni specifiche. Era previsto un adeguamento delle norme entro il 15 luglio scorso, che non c’è stato.
Ma al di là delle comunicazioni sulla copertura della contrattazione, la direttiva prescrive agli Stati membri anche di raccogliere i dati, monitorare e rendere disponibili tutte le informazioni sui salari.
L’Italia, in realtà, non ha un sistema di monitoraggio dei contratti collettivi che permette ai lavoratori di conoscere con facilità gli stipendi previsti. Si possono trovare sì i minimi tabellari. Ed esiste al Cnel l’archivio nazionale dei contratti collettivi, che però spesso pubblica i rinnovi e non i testi consolidati, quindi è difficile per un lavoratore conoscere in maniera trasparente le dinamiche retributive, gli scatti, gli aumenti ecc.
Mancano pochi giorni al 15 novembre. Senza un adeguamento, l’Italia si espone alla possibilità di una procedura di infrazione da parte della Commissione europea. Un’altra, nel lungo elenco di infrazioni che già abbiamo collezionato.
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