Vi è mai capitato di far parte del campione dell’Istat per l’indagine sulla forza lavoro? Funziona così: un rilevatore vi contatta, si fissa un appuntamento per un’intervista di persona, che finirà nei dati mensili; e dopo tre mesi, vi ricontatta, questa volta al telefono, per sapere se qualcosa è cambiato nella situazione lavorativa.
Insomma, bisogna dedicarci del tempo. E sempre meno persone sono disposte a farlo. Risultato: i campioni delle indagini si restringono e quindi rischiano di essere sempre meno attendibili per le statistiche ufficiali. Non solo in Italia.
L’Eurostat, l’agenzia statistica dell’Ue, pubblica i numeri sui tassi di risposta alle indagini sulla forza lavoro con un ritardo di tre anni. Gli ultimi dati, quindi, risalgono al 2021. E alcune agenzie nazionali, compreso l’Istat, non diffondono dati più aggiornati. Le ultime cifre italiane segnano un calo nei tassi di risposta, ma essendo ferme al 2021 potrebbe anche essere per effetto della pandemia, che di fatto ha impedito le interviste di persona.
Nel secondo trimestre del 2020, il tasso di mancata risposta dell’Eurostat per le indagini sulla forza lavoro in tutti gli Stati membri ha raggiunto il 34,6 per cento. Ma il trend è in calo anche in Spagna, Germania e Portogallo, dove esistono dati nazionali aggiornati al 2023.
Il Financial Times si è occupato della questione, anche perché il tema è particolarmente sentito in Gran Bretagna. Dove dieci anni fa circa la metà delle famiglie rispondeva al sondaggio sulla forza lavoro, mentre oggi la percentuale è scesa a una su cinque. Questo crollo della partecipazione ha costretto l’istituto nazionale di statistica a declassare i dati su inattività e disoccupazione a «official statistics in development».
La questione è seria, perché su queste statistiche si basa la politica monetaria delle banche centrali, che hanno bisogno di una visione chiara della forza lavoro quando decidono se alzare o abbassare i tassi di interesse. E sui numeri ufficiali si gioca anche la propaganda politica, chi li usa per celebrare il proprio operato o screditare quello degli avversari.
E se alcune anomalie nelle statistiche ufficiali dipendono anche da dati non attendibili, sarebbe utile saperlo.
Gli strumenti statistici standard, in realtà, hanno mostrato molte difficoltà a registrare la ripresa dopo la pandemia. Tant’è che, ad esempio, in Italia sul Pil abbiamo assistito di recente a una revisione al rialzo. Il Gross Domestic Income (il reddito nazionale lordo) italiano, che è l’altra modalità di misurare la ricchezza guardando al reddito, è in effetti molto più alto di quello che indica il Pil. Da qui potrebbe dipendere quindi il disallineamento tra l’occupazione in rialzo e l’economia che rallenta.
Poi c’entrano anche i metodi. Negli Stati Uniti, ad esempio, i dati sulla fiducia dei consumatori dell’Università del Michigan sarebbero stati distorti da uno spostamento verso le interviste online. E così, mentre dai dati non corretti sembra che il sentiment sia crollato nella primavera di quest’anno, secondo i dati corretti invece la percezione non è poi così negativa.
In Italia, invece, quando si parla di occupati e disoccupati bisogna tenere conto anche del nuovo metodo di rilevazione dell’Istat, che dal 2021 conteggia come non più occupato chi usufruisce della cassa integrazione da oltre tre mesi.
Ma non è solo una questione di tecnicismi. Secondo il Financial Times, un’altra «minaccia alla nostra conoscenza» deriva dal fatto che il mondo cambia con una rapidità che gli statistici faticano ormai a cogliere in tempo reale. Negli Stati Uniti, ad esempio, sembra che il vero cambiamento che ha scombussolato le statistiche ufficiali sul lavoro sia stato l’aumento dell’immigrazione.
In teoria, viviamo in un’era di abbondanza di dati, ma il pericolo è di saperne meno di quanto ne sapevamo in passato.
Probabilmente serviranno i dati definitivi sui prossimi censimenti per risolvere il rebus.
Il grafico dal Financial Times
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