La notizia della morte del latino è fortemente esagerata. Non solo perché è protagonista della seguitissima rubrica de Linkiesta “O tempora, o mores” di Francesco Lepore, celebrata persino dal Times, né per le citazioni compiaciute di Enrico Mentana nei momenti vuoti delle sue maratone televisive, né tantomeno per i tentativi quotidiani di resuscitarla sui banchi dei licei italiani. Il latino vive e non si limita a vegetare perché non se n’è mai andato. Alcuni termini sono rimasi intonsi da duemila anni, anche se spesso a nostra insaputa. Involontariamente il latino si camuffa in parole che consideriamo italiane, come agenda, veto, album; o in termini che pronunciamo all’inglese. Alzi il pollice chi ha pensato all’Antica Roma leggendo monitor o focus. Secondo il giornalista Vittorio Feltri, direttore di tanti quotidiani in tempi diversi tra cui il Giornale e Libero, la lingua di Cicerone e Giulio Cesare merita di essere letta, capita e riscoperta per tante ragioni che spiega nel suo saggio: “Il latino. Lingua immortale” (Mondadori). Ve ne anticipiamo una: la concisa saggezza del latino sopravvive in motti fulminei che offrono un rifugio emotivo a molte anime in cerca di risposte, di conforto, o di certezze, a prescindere dal titolo di studio. Anzi, spesso da chi il latino non lo conosce proprio.
Feltri, nel suo libro spiega bene quanto sia ampia la distanza tra il latino vero e quello immaginato. Cosa si può fare per colmare questa differenza?
Intanto il latino per saperlo bisogna studiarlo. Purtroppo è stato abolito nella scuola media inferiore e anche nei licei non mi sembra che venga studiato più come una volta; per cui la conoscenza del latino è molto superficiale. Non credo che senza leggere i classici si possa afferrare la grande forza sintetica di questa lingua. Ma a forza di rimasticatura, il latino seppur praticamente abolito o comunque indebolito, è rimasto un po’ nella mente e anche nel linguaggio italiano, per cui la gente fa una gran confusione. Ci sono delle espressioni latine che vengono scambiate per inglesi e pronunciate come tali. Segnale del fatto che siamo arrivati proprio in fondo. Questo libro può aprire un po’ la mente a chi pensa che il latino sia l’inglese per capire che inglese proprio non è. Questo è stato il mio principale sforzo.
Monitor, report, tutor. Nel libro elenca tanti esempi di questa confusione nella mente degli italiani. Come se la spiega?
Perché l’italiano è una sorta di “imbastardimento” del latino, tanto che si chiamava volgare, e già questo dovrebbe farci capire tante cose. Quindi il latino lo usiamo inavvertitamente, storpiandolo e facendo un po’ di confusione. Come spiego nel libro, anche quando sopravvive nei motti e nelle espressioni, spesso lo fa in una versione inconsapevolmente modificata. A forza di essere italianizzato, ci ha fatto scordare molte delle sue caratteristiche originarie. Non è una critica, è solo una constatazione: le cose sono andate così, ma possiamo rimediare.
Proviamoci. Quando si è innamorato del latino?
Purtroppo sono rimasto orfano di padre quando avevo sei anni. Mia madre aveva altri due figli ed è stato faticoso per lei mandare avanti la baracca. Così quando ho finito la terza media ho iniziato a lavorare. Per inciso, noi in terza media già traducevamo il “De Bello gallico” cosa che oggi non si fa più. Però smisi di studiare e non mi iscrissi al liceo perché dovevo lavorare per dare una mano a mia madre. Ho fatto dei mestieri orribili come il fattorino o l’aiuto commesso. Poi ho fatto un corso di vetrinista, diplomandomi in quel mestiere. E siccome all’epoca di vetrinisti ce n’erano pochi, eravamo richiesti e strapagati. Quindi per due anni ho fatto il vetrinista accumulando un paio di milioncini. Poi smisi di lavorare e ricominciai a studiare. Ma non potevo a quell’età di iscrivermi al ginnasio, sarebbe stato un percorso troppo lungo.
E come lo ha accorciato?
Con una certa dose di presunzione mi ero messo in testa di studiare da solo per fare la maturità da autodidatta. Allora andavo quasi tutti i giorni nella bella biblioteca di Bergamo. Il suo direttore era Monsignor Angelo Meli che insegnava al seminario una materia che oggi non esiste più: eloquenza. Il Monsignore mi vedeva sempre lì in biblioteca, si era affezionato e praticamente mi adottò, aiutandomi a studiare. Quindi ho passato tanti pomeriggi a casa sua, per tre quattro ore facendomi un mazzo così. Lui mi parlava solo in due lingue: bergamasco, e quello un po’ lo conoscevo, o in latino. E stando tanto tempo con lui ho scoperto una cosa.
Cosa?
Che le lingue si imparano ascoltandole. E a forza di sentire parlare latino mi è entrato nel cervello. A volte mi sembra di ragionare anche in latino. Sono cresciuto così, non ho nessun merito di studioso particolare.
E com’è andato l’esame di maturità da autodidatta?
Il giorno prima della prima prova tradussi con il Monsignore un brano di Virgilio, e la mattina dopo mi diedero proprio quel testo. Finì la versione di dieci minuti e la consegnai al professore che mi fece: “Ma sei cretino? Come fai a consegnare così presto una cosa così complicata?”. Gli dissi la verità, che l’avevo fatta il giorno prima. E lui mi rispose: “Lo sai che hai un bel culo?”. Poi me la sono cavata bene con gli altri esami, tranne chimica e fisica, ma questo perché non avevo nemmeno sfogliato i libri: non so neanche la formula dell’acqua.
Anche lì ha avuto fortuna?
In commissione d’esame c’erano due insegnanti carine sui ventisei, ventisette anni. Confessai di non sapere niente di tutta quella roba lì perché non avevo avuto tempo di studiare, convinto che mi avrebbero rimandato a ottobre e avrei studiato tutta l’estate quelle due materie. Sì, al tempo si andava a ottobre anche con la maturità, oggi non più. Prima insistettero un po’ perché avevo ricevuto dei voti altissimi in tutte le altre materie, ma ribadì di non saper niente delle loro materie. Dopo aver parlato tanto tra loro, mi dissero: “Se ne vada”.
Promosso o rimandato a ottobre?
Tre o quattro giorni dopo esposero i tabelloni. Guardai la “F”, cercando “Feltri Vittorio”. Lessi: “Maturo”. Non ci credevo. Mi feci dare il righello dal bidello perché temevo di aver sbagliato. E invece era tutto vero. Quelle due professoresse non le ho viste più in vita mia e mi dispiace perché se le incontrassi di nuovo le ringrazierei. Mi hanno graziato.
A proposito di scuola, in Italia ci piace incistarci in polemiche cicliche sull’insegnamento del latino nei licei. Alcuni la considerano una pratica desueta, lei invece nel libro spiega che imparare a tradurre è un perfetto esercizio di logica utile per risolvere da adulti i problemi della vita.
Lo vedo con mio nipote, il figlio di mia figlia, sta frequentando l’ultimo anno di liceo classico. Ho notato che in latino prende dieci, forse per una sorta di predisposizione genetica. Così mi sono messo a controllare, e devo dire che è davvero bravo, lo sa fare. Questo dimostra che, se ti applichi seriamente al liceo, puoi ancora impararlo bene. Però, il problema è che oggi si parte da zero, perché non si fa più alle medie, e quindi bisogna recuperare tutto in tre anni. Questo rende lo studio più faticoso, e molti studenti si annoiano, non studiano come dovrebbero e vengono promossi con un sei che spesso non si nega a nessuno.
Immaginiamo Vittorio Feltri per un giorno ministro dell’Istruzione: reintrodurrebbe lo studio obbligatorio del latino già dalle medie?
Sì, renderebbe più facile affrontarlo poi al liceo. Ai miei tempi si andava a scuola così. Parlo di ottantuno anni fa, un’epoca che ormai sembra lontanissima. Il latino era obbligatorio già dalla prima media: si studiavano le declinazioni e si iniziava anche con la sintassi. A quell’età da giovani, quando si è poco più che bambini, si ha un’elasticità mentale che poi si perde, e questo rendeva più semplice imparare il latino. Le cose che ho imparato allora me le ricordo ancora oggi.
Nel latino usato dai giornalisti ci sono tanti equivoci che lei spiega benissimo nel libro. Dal «il dado è tratto» ad “agenda”, usato al singolare quando in realtà dovrebbe essere inteso al plurale: le cose da fare.
Sono errori che nascono dalla nostra scarsa conoscenza della latino, ma anche dell’italiano. Si è ormai persa l’abitudine di analizzare le parole con attenzione. Anche l’uso del dizionario è diventato sempre più raro, persino tra i giornalisti. Io invece ho sempre avuto l’abitudine di controllare anche il minimo dubbio. È una pratica che purtroppo oggi non si fa quasi più.
Quanto l’ha aiutata il latino nel suo lavoro di giornalista?
Ho cercato di imitare l’essenzialità dei latini nei titoli delle prime pagine che per loro natura devono essere concisi, chiari e, possibilmente anche divertenti, perché il contenuto deve colpire il lettore. Oggi invece i titoli fanno schifo, perché mancano di quella capacità sintetica che i latini avevano con i loro slogan. Nella mia carriera ho scelto spesso espressioni particolari, al punto che mi hanno portato persino in tribunale.
Come “Patata bollente”, riferito al caso dell’allora sindaca di Roma Virginia Raggi
Se vai su qualsiasi dizionario, scoprirai che significa “questione scottante”. Ma i magistrati, che evidentemente non conoscono né il latino né l’italiano, hanno pensato che mi riferissi all’organo femminile. Ma si può essere così ignoranti? Mi hanno addirittura condannato fino in Cassazione.
Non sarà stato l’unico caso.
Un’altra vicenda simile riguarda la parola “pirla”. A Milano significa “trottola”. Eppure, in tribunale hanno discusso se fosse un insulto o meno. Per difendermi, ho dovuto portare Eugenio Montale, che era ragioniere, a dimostrare che pirla in realtà è semplicemente un sinonimo di trottola, come riportato anche in una sua poesia. È incredibile, ma è successo davvero.
Nel libro lei loda la capacità del latino di esprimere in modo conciso perle di saggezza millenarie. Qual è il motto che più l’ha accompagnata nella sua vita?
L’espressione che mi piace più di tutti è homo homini lupus. È intraducibile in altre lingue. In italiano sarebbe tipo: “uomo per l’uomo lupo”. Una schifezza. Per me è stata una espressione importante.
Perché descrive una certa categoria dell’essere umano?
Anche uno stato d’animo.