Via dal bipopulismoLa fine del Terzo Polo non è la fine della politica liberal democratica in Italia

Il prossimo 23 e 24 novembre, a Milano, Luigi Marattin, ex Italia Viva, organizza la convention per la formazione di un partito riformatore, non verticistico, lontano da destra e sinistra. «Vogliamo rappresentare quel pezzo della società italiana che non si riconosce né nel centrosinistra a guida sindacal-grillina, né nel centrodestra a guida sovranista», dice a Linkiesta

Lapresse

Si può uccidere un partito, non l’idea. La fine del Terzo Polo non ha decretato la fine della politica riformista, liberale, moderata in Italia. I litigi tra Matteo Renzi e Carlo Calenda non sono e non devono essere una condanna al bipopulismo di una destra neo, ex, post-fascista e di una sinistra movimentista. «Il fallimento di quel progetto non ha sancito l’assenza della domanda per un partito del genere, ha solo certificato il fallimento di quella particolare offerta, basata sulla fusione a freddo di due partiti fortemente verticistici», dice a Linkiesta Luigi Marattin, deputato eletto con Italia Viva e poi uscito dal partito di Matteo Renzi a settembre.

Marattin, oggi nel gruppo Misto, sta provando a riformulare una proposta politica centrista, con un partito nuovo, non leaderistico e non personale. Lo sta facendo con l’associazione Orizzonti Liberali, un progetto che ha come obiettivo ultimo la formazione di un partito liberal-democratico e riformatore, autonomo dai due poli. Il percorso è già avviato e il prossimo appuntamento da segnare in calendario è per sabato 23 e domenica 24 novembre, a Milano, al Big Theatre Mind (qui il link per registrarsi), con la convention “Il Coraggio di Partire” che darà ufficialmente il via al cantiere per l’unità dei liberal-democratici. Quello stesso fine settimana, proprio sabato 23 alle 12:20, Marattin sarà sul palco del Linkiesta Festival per parlare del futuro dei liberali, al fianco di Ivan Scalfarotto, Giorgio Gori e Alessandro Tommasi (qui c’è il programma del Festival).

Onorevole Marattin, cosa le fa credere che un progetto così possa funzionare dopo il fallimento del Terzo Polo?
C’è un pezzo della società italiana che non si riconosce né nel centrosinistra a guida sindacal-grillina, né nel centrodestra a guida sovranista. E ha capito che non serve coltivare l’illusione di “temperare” i populisti dei due poli: tanto vinceranno sempre loro, avranno sempre la leadership politico-culturale all’interno di ciascuno schieramento. Non esiste sintesi possibile tra chi considera il Jobs Act la più importante riforma del mercato del lavoro degli ultimi decenni e chi raccoglie le firme per abolirlo. O tra chi vuole Europa, concorrenza e mercato e chi (nel centrodestra populista) è contro Europa, contro la concorrenza e contro il mercato. Le persone che condividono un approccio liberale e riformatore ai problemi dell’Italia, stavolta non devono dividersi ma stare tutti in uno stesso grande partito che isoli i populisti, i conservatori e i sovranisti.

Anche se il sistema elettorale e il quadro politico attuale sembrano scoraggiare questa soluzione?
Il sistema elettorale è un alibi. Nella patria del maggioritario e del voto utile (la Gran Bretagna) un partito libdem ha preso il 12,2 per cento. Discorso simile, sebbene con un doppio turno, in Francia. E mi si vuole dire che in Italia, dove la legge elettorale è per due terzi proporzionale e non abbiamo mai avuto tradizioni di bipartitismo, sarebbe impossibile avere un partito liberaldemocratico indipendente dai due poli? Suvvia.

La vittoria di Trump ha rilanciato i teorici del bipartitismo, figuriamoci quelli del bipolarismo. Teme che anche l’Italia sia troppo polarizzata per votare un centro liberale, riformista, moderato?
Secondo me la vittoria di Trump ha dimostrato che il segmento tradizionale destra-sinistra non è in grado di sconfiggere il populismo, perché ne diventa preda. Così come le categorie politiche “destra” e “sinistra” nascono con la Rivoluzione Industriale (o meglio con la Rivoluzione francese, che ne fu in qualche modo l’interfaccia politica), così la globalizzazione – uno shock di portata analoga a quello che fu duecentocinquanta anni fa la rivoluzione industriale – ha creato due nuove categorie politiche, differenziate dall’atteggiamento nei confronti dell’apertura: da una parte ci sono i populisti/sovranisti (sia della vecchia destra, che della vecchia sinistra), dall’altra chi la globalizzazione la vuole sfruttare per allargare le opportunità di tutti. L’Italia non è mai stata bipolarista. Le culture politiche di questo Paese sono sempre state almeno cinque (quella socialista, quella comunista, quella cattolico-liberale, quella laico-liberal-repubblicana e quella della destra sociale). Finiamola di raccontarci la storiella che siamo diventati improvvisamente come i Paesi anglosassoni, che da duecento anni hanno due soli partiti e una legge elettorale puramente maggioritaria.

Dice spesso che un progetto politico ha bisogno di quattro elementi per avere successo: leadership, una precisa idea di società, una classe dirigente diffusa e un’organizzazione della struttura. Quale di questi punti le sembra il più difficile da raggiungere?
Be’, ultimamente ci si è concentrati solo su uno, la leadership. I partiti nascevano, si sviluppavano e morivano unicamente sulla base della figura del fondatore. E oramai questa distorsione è entrata nella testa delle persone: quando gli dici che vuoi costruire un nuovo progetto politico, la domanda non è mai “in quali valori e politiche credete?” ma sempre “chi fa il leader?”. Stavolta, nella costruzione di questo progetto, noi partiamo dagli altri tre elementi: una visione di società fatta di principi, valori e policies; una classe dirigente diffusa composta dalle tante associazioni che stiamo riunendo, che a loro volta daranno vita ad una struttura organizzativa radicata ed efficiente. Poi, l’anno prossimo, eleggeremo il leader nell’unico modo in cui le leadership si formano: con una competizione aperta e contendibile. L’appuntamento di sabato 23 e domenica 24 novembre al Big Theatre Mind è il primo passo di questo percorso.

A Linkiesta Festival parteciperà al panel sul futuro dei liberali italiani. Sul palco con lei ci saranno il suo ex collega di partito Ivan Scalfarotto, Giorgio Gori del Partito democratico e Alessandro Tommasi di Nos. Sono secondo lei dei compagni di viaggio per il suo nuovo progetto politico o in una prima fase bisogna presentarsi alle elezioni da soli e poi si vedrà?
Alessandro Tommasi e l’associazione che ha fondato, Nos, sono tra i nostri più attivi compagni di viaggio. Quei ragazzi arrivano dove nessuno di noi arriva: a rappresentare quel pezzo di Italia più giovane e dinamica, che guarda al futuro e non ne ha un briciolo di paura, che vuole rottamare le vecchie liturgie della politica e massimizzare il coinvolgimento dal basso. Insieme stiamo lavorando benissimo e sono sicuro lo faremo ancora in futuro. Ivan e Giorgio sono due amici, ma hanno una collocazione politica del tutto diversa: loro sono convinti che sia possibile costruire un progetto credibile con Nicola Fratoianni, Angelo Bonelli, Giuseppe Conte e il Movimento 5 stelle per eleggere Elly Schlein premier. Io, mi dispiace, non ci credo.

Il crollo del Movimento 5 stelle alle regionali, preceduto dal litigio tra Conte e Beppe Grillo ha ridimensionato il peso politico dei grillini. C’è secondo lei uno spazio politico per attrarre il Partito democratico verso posizioni più riformiste? O lo schema bipopulista è destinato a resistere?
Per tutta la sua storia, il Movimento 5 stelle è sempre andato male alle elezioni amministrative, in particolare al Nord. In Liguria cinque anni fa (ai tempi del trentatré per cento delle politiche) prese solo un paio di punti percentuali in più rispetto a quelli che ha preso il mese scorso. Perché l’elettorato dei grillini si disinteressa delle elezioni locali, e si fa vivo sempre alle politiche, con percentuali ancora molto alte. E poi, una parte del Partito democratico è ancora convinta che i grillini abbiano quella “connessione col popolo” che loro sanno di aver perso, quindi non ci rinunceranno facilmente. Ma anche se fosse, il Partito democratico mantiene saldi i suoi riferimenti nella Cgil e nell’alleanza con Avs. Che esprimono una sensibilità (dal fisco alle politiche industriali, dalla politica estera alle politiche di sviluppo) opposte rispetto ad una cultura liberal-democratica. Ma dico io: lo abbiamo visto succedere già nel 1996 e nel 2006, lo sfarinamento di una coalizione costruita solo sul non far vincere l’avversario? Davvero vogliamo farlo una terza volta?

Tornando alle elezioni americane, lei ha espresso preoccupazione sulla possibilità che l’amministrazione Trump possa trascinare l’Italia in una guerra commerciale attraverso dazi e tariffe. Cosa dobbiamo aspettarci?
Una delle poche certezze della scienza economica è che il libero commercio è meglio – molto meglio – del protezionismo. Non so se Trump alla fine medierà verso forme più accettabili di politica di bilanciamento del mercato (soprattutto nei confronti di una Cina che, essendo ampiamente sussidiata dal denaro pubblico, distorce alcuni mercati), ma se dovesse davvero scatenare una guerra commerciale a tutto tondo, sarebbe un problema vero. Soprattutto per noi, visto che l’export italiano (e in generale quel pezzo della nostra industria che compete bene nel mondo) hanno finora tenuto a galla il Paese.

Recentemente ha sottolineato l’importanza di una politica energetica che riduca i costi per le imprese italiane. Quali misure propone per affrontare la crisi energetica e sostenere la competitività del settore produttivo italiano?
Tre cose: nucleare, nucleare e nucleare.

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