Certo, Giuseppe Conte non è Achille Occhetto, e (soprattutto) la costituente del Movimento 5 stelle non è neanche lontanamente paragonabile a quel lungo e sofferto processo che portò alla nascita del Partito democratico della sinistra. Ma la questione del «quorum» – la necessità di portare al voto la maggioranza degli 88.943 iscritti – evoca immediatamente il clamoroso incidente che segnò la nascita del Pds, il mancato raggiungimento del quorum nel voto del Consiglio nazionale che avrebbe dovuto eleggere Occhetto segretario del nuovo partito. È noto che Beppe Grillo punta proprio sulla mancata partecipazione per delegittimare l’intera operazione. Rischio non so dire quanto concreto, anche perché, con la consueta disinvoltura con cui regole e procedure democratiche sono affrontate da quelle parti, la possibilità di votare, come sempre comodamente da casa e con un semplice clic, è stata estesa per ben quattro giorni, dalle 10.00 di giovedì fino alle 15.00 di domenica. Ma nonostante tutto il mancato raggiungimento del quorum mi pare comunque un rischio più concreto di quello paventato da Conte, e cioè che dalla infinita serie di macchinose e farraginosissime votazioni venga smentita la sua linea politica.
Conte assicura che in quel caso non esiterebbe a dimettersi. E questo è il primo motivo per dubitare della concretezza del rischio. Il secondo è che, per smentire la sua linea politica, prima bisognerebbe capirla. E a me pare che l’avvocato sia stato ben attento, come al solito, a formularla in termini sufficientemente vaghi. Anche oggi, nella sua intervista a Repubblica, parla di «collocazione nel campo progressista», ma quando il giornalista osserva che l’indicazione porta a un’alleanza col Partito democratico Conte replica prontamente: «Su questo, la mia linea è molto chiara. Non ho mai parlato di alleanza organica o strutturata col Pd, non sarebbe compatibile con il dna del M5s» (del resto, quando un politico sente il bisogno di premettere che la sua linea è molto chiara, si può scommettere che il seguito del discorso sarà assai nebbioso).
Non per niente, come qui avevo notato a suo tempo, già il 31 ottobre Marco Travaglio, convinto sostenitore della rottura con il centrosinistra, aveva fornito sul Fatto quotidiano un’interpretazione molto precisa di quella linea: «Conte non ha stretto alleanze organiche col Pd: diversamente da qualche smemorato dei suoi, non ha neppure applicato ai 5Stelle l’etichetta di centrosinistra. Nello Statuto approvato dagli iscritti, li ha definiti “progressisti”: l’opposto dell’attuale Pd, refrattario a ogni cambiamento e nostalgico di Renzi».
Insomma, direi che la linea Conte si può riassumere nella consueta disponibilità a recitare tutte le parti in commedia, a seconda delle occasioni, tanto da potersi collocare indifferentemente con Donald Trump in America e con Nicola Fratoianni in Europa, esattamente come in Italia ha potuto governare con la Lega e con il Pd. Ma è evidente che da allora la sua posizione si è molto indebolita, come nel frattempo è accaduto anche, con singolare simmetria, al suo ex alleato di governo Matteo Salvini: proprio i due campioni del populismo che sulla carta avrebbero dovuto essere i maggiori beneficiari del nuovo vento trumpiano che soffia dagli Stati Uniti. Resta da capire se questa strana sfasatura sia dovuta al fatto che l’Italia, dove la febbre populista ha attecchito prima, sia ormai già in fase di remissione, o invece al fatto che qui le istanze populiste siano state ormai assorbite dalle forze politiche maggiori di entrambi gli schieramenti, e siano diventate la nuova normalità dell’intero sistema.
Leggi l’articolo di Mario Lavia su questo argomento
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