ForzalavoroLe “battute” sessiste che non fanno ridere le donne

Quasi sette su dieci dicono di essere state oggetto o aver sentito battute sessiste o volgari verso altre donne al lavoro. L’86,4 per cento spiega che non c’è una persona a cui rivolgersi per denunciare o avere supporto. Iscriviti alla newsletter di Lidia Baratta

(Unsplash)

Qualche tempo fa, durante un pranzo, si raccontava di un professionista di una certa età che, resosi conto all’ultimo minuto della presenza di soli uomini attorno al tavolo di un webinar, chiese a una giovane stagista di sedersi a quel tavolo perché aveva «bisogno di qualcuno con i genitali interni». Disse proprio così. E nessuno intervenne.

Quel racconto a tavola creò scalpore in alcuni, in altri meno. Anzi, un amico di colui che stava raccontando l’accaduto alla fine gli consigliò di non denunciare la cosa, visto che era in lizza per diventare partner dello studio e l’eventuale denuncia avrebbe potuto ostacolarlo.

Di storie simili, le lettrici (e i lettori) di Forzalavoro potrebbero sicuramente raccontarne tante.

Come spiegano dalla Fondazione Libellula, nata per promuovere la cultura contro la violenza di genere, i femminicidi che riempiono le pagine di cronaca sono la punta di una piramide che poggia su una base che va dalle parole e “battute” sessiste e machiste fino alle molestie fisiche e verbali e alla violenza vera e propria.

 

Una sorta di “brodo” culturale che rende normale che in un ambiente di lavoro a prevalenza maschile le donne siano particolarmente attente a quello che indossano per evitare le battute, puntuali, dei colleghi maschi. O che ci sia qualcuno che, senza pensarci due volte, pubblica un annuncio di lavoro per «avvocatesse» di bella presenza che indossino «tacchi a spillo».

Quasi sette donne su dieci dicono di essere state oggetto o aver sentito battute sessiste o volgari verso altre donne al lavoro. Quasi sette donne su dieci dicono di aver ricevuto complimenti, allusioni, osservazioni che le hanno messe a disagio in ufficio.

«Non si può dire più niente». La sentite quella vocina?

Carta canta La Direttiva europea 54 del 2006 definisce le molestie sessuali come «qualsiasi forma di comportamento indesiderato, verbale, non verbale o fisico, di natura sessuale, avente lo scopo o l’effetto di violare la dignità di una persona, in particolare quando crea un ambiente intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo».

E una sentenza della Corte di Cassazione nel 2022 ha stabilito che le allusioni a sfondo sessuale giustificano il licenziamento disciplinare del lavoratore, anche se avvengono in un clima di goliardia.

Eppure continuano.

I numeri L’Istat dice che il 13,5 per cento delle donne italiane ha subito molestie sul lavoro a sfondo sessuale nel corso della vita, pari a quasi due milioni. Soprattutto le più giovani fino a 24 anni, tra le quali questa percentuale sale al 21,2 per cento.

L’autore delle molestie sulle donne è per lo più un collega maschio (37,3 per cento). Di questi, i capi e i supervisori autori sono circa il 10 per cento. E quasi mai si tratta di casi isolati. Anzi, dice l’Istat, la ripetitività ha un’incidenza alta.

Atteggiamenti che si manifestano tutti i giorni, proprio nella sfera in cui per definizione ci sono ruoli e gerarchie stabilite, ovvero il lavoro. Spesso in un contesto di disparità di potere – visto che molti capi sono maschi – con le donne in condizioni di subalternità.

A cui si aggiungono comportamenti che a un primo sguardo possono sembrare anche innocui. Ma che non lo sono. Come quando le donne nei contesti lavorativi non vengono chiamate con il proprio titolo professionale, ma indicate come «signora» o «signorina». O come quando vengono interrotte dal collega uomo durante una riunione (manterrupting), magari per spiegare quello di cui in realtà si stava già parlando (mansplaining).

E più il titolo di studio delle donne è alto, più i numeri peggiorano. Probabilmente perché, spiegano dalla Fondazione Libellula, le donne con un titolo di studio più alto sono più portate ad avere maggiore consapevolezza e sensibilità nel riconoscere un fenomeno che nella maggior parte dei casi invece viene percepito come «normale».

Dice Giuseppe Di Rienzo, managing director di Fondazione Libellula: «Si tratta di un fenomeno molto connotato da un punto di vista culturale. Una molestia può essere fisica ma anche verbale, più o meno sottile. Spesso si cade nella banalizzazione del fenomeno, tanto che si tende a pensare che le donne che non stanno al gioco non comprendono che era solo una battuta».

Poi, c’è da considerare anche che le donne che fanno carriera possono rappresentare una minaccia per gli uomini. «Gli uomini si sentono minacciati dalle donne di potere che in qualche modo occupano posizioni e ruoli che fino a ieri erano totale appannaggio dei maschi. È innegabile. La molestia diventa così un modo per rimettere a posto la donna e per far prevalere una logica e una cultura basata sul patriarcalismo», dice Di Rienzo.

Il problema è che l’86,4 per cento delle donne spiega, secondo i dati Istat, che non c’è una persona a cui rivolgersi per denunciare o avere supporto. Nelle grandi aziende, esistono in teoria i referenti della Diversity & Inclusion e si possono fare segnalazioni anche anonime. Nelle piccole è molto raro. Per non parlare del settore pubblico.

Secondo i sindacati, è necessaria una «contrattazione di genere» anche per far emergere queste forme di violenza che restano taciute. Ma forse bisognerebbe prima fare un lavoro sugli stessi sindacati.

Avete mai visto la foto di una qualunque trattativa per il rinnovo di un contratto collettivo? Sono quasi sempre e quasi tutti maschi.

 

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