Nel luglio del 2023, la rivista musicale americana “Rolling Stone” ha pubblicato online la classifica dei cento brani migliori della storia della musica pop coreana. Le Kim Sisters compaiono al numero novantanove con il brano “Charlie Brown” del 1964, una cover del classico rock’n’roll della band americana The Coasters. Sebbene siano un gruppo importante nella storia dell’evoluzione della popular music coreana perché emblematico per illustrare come il successo negli Stati Uniti non sia in realtà un fenomeno recente, e che, più in generale, le culture non sono qualcosa di monolitico ma sempre in evoluzione e in un rapporto di influenza vicendevole, le Kim Sisters vanno davvero incluse in una storia del K-pop?
Il dubbio sorge quando ci chiediamo cosa sia esattamente il K-pop. Il comitato di giornalisti e critici musicali responsabile della classifica di “Rolling Stone” usa volontariamente i termini «musica pop coreana», «popular music coreana» e «K-pop» come interscambiabili, includendo dunque sotto un’unica categoria brani estremamente diversi in termini di genere e stile, pubblicati in un arco di tempo molto lungo, dal 1920 al 2023, non sempre interamente in lingua coreana, il cui unico trait d’union sembra essere che sono cantati da artisti di base in Corea, dato che nemmeno tutti i membri di molti gruppi attualmente attivi nel Paese sono di nazionalità coreana. L’obiettivo, dicono, è «raccontare la storia della popular music coreana [corsivo mio] in maniera più ampia».
L’intento di fondo è probabilmente buono: oggi che i cantanti coreani godono di una fama all’estero senza precedenti, perché non approfittarne e far conoscere anche quelli di qualche decennio fa? Popular music e musica pop non sono però la stessa cosa: con la prima espressione ci si riferisce a tutta la musica contemporanea che si rivolge a un pubblico di massa, la seconda altro non è che una delle forme di popular music, insieme al rock o all’hip hop, tra i tanti generi. La domanda allora è: K-pop sta per popular music coreana, per musica pop coreana o è un genere a sé, così come lo è il pop, sotto la più grande categoria generale di popular music?
L’espressione indica una macrocategoria che include diversi generi musicali accomunati solo dalla località geografica, tutto il pop coreano, o un particolare genere musicale a sé stante? In Corea l’espressione utilizzata per «popular music» è daejung eumak (대중음악), o daejung kayo (대중가요), non «K-pop», e il pop è semplicemente chiamato pop e il più delle volte, ad esempio sulle piattaforme musicali locali come Melon, una sorta di Spotify, si riferisce al pop occidentale. La parola K-pop è stata coniata da media esteri sullo stampo di J-pop, che indica il pop giapponese, e compare per la prima volta alla fine degli anni Novanta. Da allora è un’espressione utilizzata perlopiù all’estero e solo in parte in patria; difatti, premi musicali nazionali come i Korean Music Awards non hanno una categoria K-pop, ma dividono i candidati in base ai classici generi pop, rock, hip hop, ecc.
Quando si è cominciato a usare l’espressione «K-pop» in Corea, in ritardo rispetto agli altri Paesi asiatici in cui la musica coreana si stava diffondendo, lo si è fatto per indicare appunto la musica coreana in quanto prodotto esportato ed esportabile. «K-pop» rimane tuttora un’etichetta che all’estero viene spesso affibbiata, come abbiamo visto, alle tracce più diverse semplicemente perché provengono dalla Corea del Sud, rivelando un’ideologia dominante di fondo per cui il pop «vero» è quello occidentale, più specificamente statunitense o britannico o, in generale, anglofono, e tutti gli altri pop sono di seconda categoria e identificati con il proprio Paese o area di origine, piuttosto che con delle caratteristiche musicali (Latin pop, K-pop, J-pop, ad esempio).
D’altra parte, però, specialmente oggi che il K-pop ha un successo globale, la Corea utilizza l’etichetta come fosse un marchio che garantisce la qualità del prodotto, servendosene per esportare sempre più musica e allargare la propria sfera di influenza. Oggi la «K» viene attaccata a tutto, dalla musica alla cosmesi (K-beauty), perché è un segno di riconoscimento preciso e «cool».
Sulla base di quanto appena detto si potrebbe dunque affermare che «K-pop» e «musica pop coreana» siano sinonimi, ma è davvero così? Nel corso degli anni i Korean Music Awards, ad esempio, hanno insignito del titolo «Miglior canzone pop» brani come Bounce di Cho Yong-Pil (조용필), un pezzo pop-rock del solista settantenne fra le più influenti figure della musica coreana contemporanea, così come Red Flavor (빨간 맛, Ppalgan Mat) delle Red Velvet, una traccia dance-pop di una delle girl band più famose degli ultimi anni. Sebbene i due brani rientrino nel più grande insieme del genere pop, è evidente al primo ascolto che appartengano a due sottogeneri differenti, e se volessimo utilizzare l’etichetta K-pop, i più concorderanno che si presta meglio a indicare le Red Velvet piuttosto che Cho Yong-Pil, la cui carriera, tra l’altro, è incominciata vent’anni prima che tale etichetta fosse coniata.
C’è chi non è d’accordo con l’affermare che il K-pop sia un genere poiché spazia da ballate in stile r’n’b a pezzi di chiara influenza Edm, e dunque non presenta caratteristiche musicali precise condivise da tutti i brani. Ma, per rispondere a questa argomentazione, basta pensare a generi come la «musica religiosa», all’interno della quale ritroviamo brani diversissimi in termini musicali ma che presentano temi comuni, o la «musica per bambini», in cui è l’età anagrafica del target di riferimento a determinarne l’appartenenza al genere.
Io penso che «K-pop» e «musica pop coreana» non siano sinonimi e che si possa definire il K-pop un sottogenere specifico di musica pop nato in Corea del Sud negli anni Novanta. […] Un genere caratterizzato da un certo tipo di artista o performer: l’idol (e difatti spesso viene anche chiamato idol pop); da un particolare modo di produzione: il sistema di «training»; da un peculiare modo di rapportarsi con i propri fan; dall’ibridismo musicale; dalle sue aspirazioni globali; dall’importanza dell’elemento visivo. Come afferma Suga dei Bts in un’intervista del 2018 al Grammy Museum di Los Angeles, il K-pop è un «content integrato», un «pacchetto audiovisivo», ed è innegabile che lo si goda e comprenda al meglio guardandone i video e le performance. Giselle del gruppo aespa, infatti, lo definisce in un’intervista dell’ottobre 2023 per «Rolling Stone» una «musica che si vede» (보이는 음악).
A mio parere, si possono in realtà anche ravvisare degli elementi musicali particolari che, sebbene non si ritrovino magari in tutti i brani K-pop, sono più comuni che nel pop occidentale: ad esempio i cambi di chiave all’interno di un singolo brano; le armonie e la stratificazione (in gergo layering) di più voci, dato che spesso si tratta non di solisti ma di gruppi anche numerosi (i SuperJunior sono dieci, i Seventeen tredici); l’alternanza fra parti cantate e parti rappate.
Oggi, nel 2024, esistono gruppi come Xg, di cui nemmeno un membro è di nazionalità coreana, pur essendo principalmente attivi in Corea. Sm Entertainment si prepara a lanciare una serie sulla televisione britannica Bbc intitolata “Made in Korea: The K-Pop Experience”, che segue il training in Corea di un gruppo di ragazzi britannici aspiranti popstar, e Hybe e Jyp lavorano in collaborazione rispettivamente alle etichette statunitensi Geffen e Republic Records alla formazione di «gruppi globali», formati da membri di etnie e nazionalità diverse che operano principalmente negli Stati Uniti e sono preparati a diventare popstar secondo la «metodologia K-pop», come l’ha definita Bang Si-Hyuk (방시혁), fondatore e presidente di Hybe. Le Katseye sono la girl band nata dalla collaborazione tra Hybe e Geffen, sei artiste di base negli Stati Uniti di cui una sola è coreana. Alla loro formazione è dedicato un documentario di Netflix uscito ad agosto 2024.
Tratto da “Fattore K” (Add editore) di Paola Laforgia, pp. 240, 19,00€