L’immagine del mondo è oggi quella del caos che, come si sa fin dalle sue origini, non era il disordine ma uno spazio vuoto o aperto da cui nacque poi l’universo. Poiché la politica ha orrore del vuoto, la divisione del mondo fra l’imperialismo sovietico e l’egemonia americana lascia ora il posto a un sistema bipolare sino-statunitense che mette in crisi il multilateralismo in un mondo in cui la globalizzazione governata dal grande capitale aveva apparentemente consentito la nascita della rete dei Paesi cosiddetti non allineati negli anni Sessanta.
Durante la Guerra Fredda l’imperialismo sovietico non aveva rinunciato a usare il metodo della violenza brutale quando uno dei satelliti cercava di mettere in discussione il suo potere come avvenne a Budapest nel 1956 e a Praga nel 1968. L’egemonia statunitense non è stata da meno quando si è trattato di essere determinante nel sostenere la brutalità dei colonnelli in Grecia nel 1967 e dei generali in Cile nel 1973 o nella complicità con oscure trame nella sfera occidentale del pianeta.
L’imperialismo sovietico e l’egemonia statunitense si sono poi confrontate direttamente e indirettamente per anni nelle guerre in Indocina e nell’Asia orientale. L’egemonia statunitense si è manifestata in Europa quando George W. Bush decise di abbandonare gi Accordi di Helsinki del 1975 e la Carta di Parigi del 1990 estendendo l’area di azione e di influenza della NATO fino ai confini della Russia nel Vertice di Praga del 2002 anticipando così l’adesione dei Paesi dell’Europa centrale all’Unione europea.
Finito definitivamente l’imperialismo sovietico con la Russia destinata a essere relegata progressivamente nel ruolo di una sub-potenza regionale nonostante la protervia bellicista di Vladimir Putin, il bipolarismo è oggi strategicamente, politicamente, economicamente e tecnologicamente rappresentato dall’egemonia degli Stati Uniti – che non hanno mai rinunciato a dare la priorità ai loro interessi garantiti dal modello federale chiunque sieda nello Studio Ovale della Casa Bianca – e dalla potenza globale della Cina che usa lo strumento geopolitico imperialista nei confronti del Sud Globale e la forza del suo commercio e delle sue tecnologie per imporre al mondo il suo modello di capitalismo di stato.
Da questo punto di vista è molto probabile che la politica estera degli Stati Uniti del secondo Donald Trump non subirà consistenti variazioni con tre rilevantissime eccezioni che riguardano la rinuncia alle rivendicazioni territoriali dell’Ucraina nelle regioni occupate dalla Russia e la decisione di lasciare agli europei il pesante onere della ricostruzione post-bellica, l’abbandono della lotta al cambiamento climatico e la conseguente rinuncia agli accordi di Parigi del 2015 come lo stesso Donald Trump fece già nel 2017 e una politica commerciale aggressiva che dovrà tuttavia tener conto delle regole del WTO e del fatto che nei rapporti internazionali si risponde normalmente dente per dente e cioè dazio per dazio mentre sarà resa più radicale la politica dei respingimenti degli immigrati irregolari già inasprita da Joe Biden nello scorso mese di giugno.
La politica estera del secondo Donald Trump sarà resa più facile dal fatto che i Repubblicani controllano la Camera dei Rappresentanti e il Senato almeno fino alle elezioni parlamentari di metà legislatura nel novembre 2026 oltre che ventisette governatori su cinquanta e la maggioranza dei giudici della Corte Suprema in un sistema di democrazia zoppa in cui è stato annullato il tradizionale modello federale del controllo e bilanciamento reciproco dei poteri (check and balance).
L’interdipendenza fra politica interna e politica estera ci deve rendere consapevoli del fatto che la tradizionale tendenza all’isolazionismo statunitense, a lungo caratteristica della cultura dei Democratici piuttosto che dei Repubblicani, si accompagna con Donald Trump all’ideologia sovranista che ha già esercitato una forte influenza nel mondo fra il 2016 e il 2020 e che la eserciterà ancora di più fra il 2025 e il 2028 perché le pulsioni sovraniste sono nel frattempo aumentate in tutto il mondo a destra ma anche a sinistra.
Non spetta a noi dare giudizi sul voto delle elettrici e degli elettori statunitensi ma vogliamo sottolineare tuttavia il fatto che il voto dei giovani, dei latino-americani e degli immigrati di seconda generazione andato in maggioranza a sostegno di Donald Trump è dovuto all’incapacità dei Democratici di spiegare come funziona il sistema di potere negli Stati Uniti, di chiarire il concreto valore aggiunto della protezione dei diritti civili per tutte le minoranze e di proporsi come una alternativa non solo all’ampia egemonia trumpiana ma anche ai difetti della presidenza di Joe Biden e della sua amministrazione con una campagna di comunicazione condizionata dal fatto che Kamala Harris era espressione di quella amministrazione e che ella ha osato rompere il cordone ombelicale con il suo Presidente solo il 6 novembre 2024.
Possiamo solo auspicare che nel mondo dei liberal statunitensi si avvii presto una riflessione autocritica prima culturale e poi politica che coinvolga i movimenti, l’accademia, la ricerca, le associazioni studentesche, il mondo del lavoro e della produzione sostenibile e che abbia come obiettivo quello di elaborare idee alternative in vista delle elezioni di metà legislatura nel novembre 2026 e poi delle elezioni presidenziali l’8 novembre 2028.
In questo quadro sarebbe utile che anche negli Stati Uniti vengano immaginate forme di democrazia partecipativa o deliberativa come quelle che si sono sviluppate in Canada, Islanda, Irlanda, Belgio, Francia e Paesi Bassi, che hanno trovato un’espressione europea nella Conferenza sul futuro dell’Europa o che sono parzialmente applicate negli Stati Uniti attraverso lo strumento della blockchain contro la corruzione, la mancanza di trasparenza, la disinformazione e il calo della partecipazione nelle elezioni locali negli stati federati.
La risposta europea al programma di Donald Trump “Make America Great Again”, che si è ispirato a un analogo slogan di Ronald Reagan nel 1980, non può essere lo slogan uguale e parallelo “Make Europe Great Again” sostituendo al nazionalismo degli Stati un improbabile e pericoloso nazionalismo europeo e al sovranismo dei vari patrioti l’idea di una patria europea sovrana destinata ad aumentare il caos e la conflittualità internazionale.
La strada da percorrere è piuttosto quella di una crescente autonomia strategica europea nella ricerca, nello sviluppo delle nuove tecnologie a partire dalle energie rinnovabili e alternative e dall’infosfera, nella convergenza sociale e ambientale come obiettivo per garantire la competitività, nella cooperazione internazionale con i Paesi esportatori di materie prime e mano d’opera, nella formazione durante tutto il corso della vita e nella solidarietà intergenerazionale sapendo che tutto ciò richiede un sostanzioso bilancio pluriennale finanziato da risorse proprie e da debito comune per investire in beni pubblici europei e non in un insieme di progetti nazionali come è avvenuto con il NextGenerationEU.
Nel quadro della autonomia strategica si colloca anche la creazione di uno strumento militare comune così come fu immaginato dal Consiglio europeo nel 1999 con l’obiettivo primario di Helsinki (Helsinki Headline Goal con uno spiegamento di forze (che furono allora immaginate in quindici brigate e centottantamila effettivi e non nei risibili cinquemila effettivi della Bussola Strategica adottata nel maggio 2022) per raggiungere tutti gli obiettivi delle Missioni di Petersberg di carattere umanitario e di soccorso, di mantenimento della pace e di gestione delle crisi comprese quelle di ristabilimento della pace (peace-keeping, peace building e peace enforcement), di ispezione sul rispetto dei trattati internazionali e di lotta al terrorismo sapendo che la creazione di questo strumento non richiederà tendenzialmente maggiori spese con l’eccezione degli investimenti industriali in nuove tecnologie ma un’efficace interoperabilità fra le forze armate nazionali e fra i servizi di intelligence.
Dando sostanza a un progetto sostenibile di governance internazionale e di sovranità condivisa – che si ispiri all’Agenda 2030 e che abbia come base il Patto per il futuro adottato dal Summit delle Nazioni Unite del 22 settembre 2024 colmandone i silenzi nella lotta alla disinformazione, nella priorità alla finanza etica, nel governo equo dei flussi migratori e nella lotta al cambiamento climatico – la risposta europea al sovranismo di Donald Trump e all’imperialismo di Xi Jinping deve riscoprire e rilanciare il valore politico e culturale del Manifesto di Ventotene nella sua dimensione internazionale di lotta alle sovranità assolute.