La maschera di MoscaOdesa ha duemila anni, considerare solo i due secoli russi è un raggiro post coloniale

Una lettera all’Unesco chiede di fermare la legge di Kyjiv che vieta la propaganda imperialista in Ucraina. Si tratta di un’ingenuità pericolosa che fa il gioco di chi per secoli ha cancellato l’identità di un popolo. La delecolonizzazione non è vendetta, ma un tentativo di sopravvivenza

AP/Lapresse

Il 14 dicembre 2023 Vladimir Putin ha detto ancora una volta che ucraini e russi sono «popoli fratelli» e che Odesa è «una città russa». Quello stesso giorno, mentre Putin faceva le sue dichiarazioni in televisione, l’esercito russo ha bombardato la città e la regione di Odesa con missili e droni per sei ore. In sole ventiquattr’ore, numerosi edifici sono stati distrutti e undici civili sono stati feriti, tra cui tre bambini.

Una delle tesi con cui i russi giustificano la guerra genocida contro l’Ucraina è quella sull’identità russa dell’Ucraina, e sulla natura russa di città come Kyjiv, Odesa, Kharkiv, Dnipro, Kherson, Poltava eccetera. Da secoli, la Russia riscrive la storia dei popoli sottomessi, assimilando con forza le loro culture e marchiando i territori conquistati con monumenti e simboli per rivendicarne il dominio eterno.

Ripenso a tutto questo mentre leggo una lettera aperta indirizzata alla direttrice generale dell’Unesco, Audrey Azoulay, pubblicata il 21 ottobre 2024 sul giornale italiano Il Foglio. Gli autori chiedono al presidente ucraino Volodymyr Zelensky di fermare immediatamente l’applicazione della legge ucraina che vieta la propaganda imperialista russa in Ucraina e prevede la decolonizzazione dei toponimi a Odesa. Finora la lettera è stata firmata da centotrentanove persone, la maggior parte delle quali non vive in Ucraina.

Dall’inizio dell’invasione su larga scala, la Russia ha distrutto o ha danneggiato più di mille monumenti del patrimonio culturale ucraino e ha trafugato preziose collezioni dai musei situati nei territori temporaneamente occupati. L’esercito russo entra nel territorio ucraino munito dei libri scolastici di storia e di letteratura, dove la storia delle terre occupate viene raccontata secondo la visione della Russia, cioè dalla parte della storia imperiale. Questi manuali sono stati trovati a Izyum, nella regione di Kharkiv, divenuta tristemente nota per le fosse comuni e le camere di tortura.

Nei territori occupati dalla Russia, i tatari di Crimea – e altre minoranze etniche – sono discriminati e perseguitati; i religiosi ortodossi, cattolici e protestanti vengono torturati. Tutte le minoranze nazionali, culturali e religiose che non corrispondono all’immagine russa sono perseguitate e private del diritto di esistere. Al posto dei monumenti ucraini alle vittime dell’Holodomor o a Taras Shevchenko, distrutti dai russi, vengono eretti monumenti russi, ripristinati toponimi sovietici e raccontata la versione russa della storia. A Yalta, in Crimea, è stato costruito un grande monumento allo zar Alessandro III; in tutte le città occupate della regione di Kherson sono stati eretti monumenti a Pushkin; a Melitopol è stato inaugurato un nuovo museo, e in Crimea il museo della Crimea, la cui costruzione ha danneggiato il sito storico di Khersones, patrimonio dell’Unesco. La costruzione di questi monumenti è stata affidata all’Agenzia per lo sviluppo militare del ministero della Difesa della Russia: i russi stanno letteralmente facendo la guerra ai monumenti, ai musei e alle istituzioni culturali.

La cultura è sempre stata parte integrante della politica d’invasione della Russia: da un lato come cavallo di Troia per propagandare le sue idee nei territori colonizzati; dall’altro come copertura per mascherare agli occhi del mondo i crimini legati all’invasione. Penso spesso al teatro drammatico di Mariupol, dove una bomba russa ha ucciso centinaia di civili. L’amministrazione dell’occupazione russa ha coperto le rovine del teatro con un banner raffigurante scrittori classici russi. È una metafora crudele, ma accurata, del ruolo della cultura russa nelle guerre imperiali.

Per questi motivi, ritengo che la lettera indirizzata all’Unesco, che chiede di fermare la decolonizzazione di Odesa, non sia altro che un tentativo di manipolazione e un atto del tutto inopportuno. Tuttavia, riconosco il diritto di ogni firmatario di esprimere la propria posizione e la propria libertà intellettuale.

La lettera menziona diciannove monumenti di simbolismo imperiale o sovietico destinati, secondo la legge, a essere smantellati, spostati o distrutti. Oltre al monumento a Pushkin, la lista comprende siti dedicati a Lenin, alla polizia segreta sovietica, ai soldati della guardia rossa e a chi aiutò i bolscevichi a sconfiggere lo Stato ucraino e a occupare Odesa durante l’aggressione russa del 1917-1921. Altri due monumenti da decolonizzare sono quello allo zar Alessandro II, promotore del decreto di Ems (1876) che vietava l’uso della lingua ucraina, della letteratura e delle rappresentazioni teatrali ucraine; e il monumento al poeta Pushkin, celebre per le sue lodi alle conquiste imperiali russe e le sue minacce all’Europa. È importante notare che, in base alla legge e secondo l’Istituto della memoria ucraina, questi monumenti non verranno distrutti ma trasferiti in musei.

I firmatari temono che senza alcuni simboli russi, Odesa possa perdere la protezione dell’Unesco. Questo pensiero mi sembra una chiara manifestazione di sindrome postcoloniale, che sostiene la preservazione dei soli simboli imperiali come degni di protezione.

La lettera indirizzata all’Unesco si basa su miti imperiali e falsificazioni che vorrei chiarire. Per esempio, affermare che il centro storico di Odesa «sia stato costruito sotto il dominio dell’Impero russo» non è del tutto corretto: non si trattava di dominio, bensì di conquista e occupazione. È altrettanto sbagliato definire l’imperatrice russa Caterina II come «la fondatrice di Odesa».

La città e la regione di Odesa hanno una storia di duemila anni, dei quali solo duecento sotto l’Impero russo. Nei vari periodi storici, queste terre appartenevano ai greci, al Granducato di Lituania, al Khanato di Crimea e all’Impero ottomano. La regione era abitata da tatari di Crimea, da ottomani e da cosacchi ucraini. Solo alla fine del XVIII secolo, la zarina Caterina II distrusse lo Stato dei cosacchi ucraini e conquistò la città ottomana di Khadzhibey, ribattezzandola Odesa. L’Impero russo cancellò la storia precedente di Odesa, trasformando Caterina II da conquistatrice a fondatrice della città, come se prima di lei ci fosse stata solo terra selvatica.

È vero che, sotto il dominio imperiale, Odesa visse un periodo di grandi costruzioni, ma era già una città multiculturale, e il suo sviluppo si deve soprattutto agli europei: italiani, polacchi, tedeschi, greci ed ebrei. Definire la rimozione di alcuni simboli imperiali dallo spazio urbano come «liquidazione» o minaccia al «patrimonio mondiale» è una manipolazione che non corrisponde alla realtà.

La lettera afferma l’importanza mondiale di Odesa. Su questo non si discute, ma non si può contrapporre Odesa alla cultura ucraina, così come non si può contrapporre Roma alla cultura italiana. In passato, la deucrainizzazione di Odesa è stata fatta appositamente per non far uscire la città dalla sfera di influenza della cultura russa. Curiosamente, gli autori della lettera usano cinque volte la parola «cosmpolita» ma insistono sulla protezione del patrimonio russo e sovietico, ignorando il contesto ucraino di Odesa.

Nella lettera non vengono menzionati né personaggi culturali ucraini né fenomeni della cultura di Odesa, cancellati dal mito imperiale, ma che piano piano tornano nel tessuto urbano, grazie proprio alla decolonizzazione e desovietizzazione. Per esempio, la via del poeta russo Zhukovsky ora porta il nome del linguista, cittadino di Odesa, Svyatoslav Karavansky, condannato a trent’anni di gulag per la sua attività di promozione dei diritti umani. La via dello scrittore russo Bunin ora porta il nome della scienziata, cittadina di Odesa, Nina Strokata, arrestata e torturata nei campi sovietici per la difesa dei diritti umani. La via del bolscevico Petrovsky, responsabile del terrore rosso, ora porta il nome di Yukhym Fesenko, editorialista e cittadino di Odesa. Nella lettera non vengono menzionati Yuriy Yanovsky, Aleksandr Dovzhenko, Mykola Kulish, Ivan Franko, Palvo Tychyna, Lesia Ukrainka, Marko Kropyvnytsky, Ivan Karpenko-Kary che vissero e crearono le loro opere a Odesa o visitarono la città e le dedicarono le loro opere.

Allo stesso modo, non si menzionano scrittori ebrei non russi come Volodymyr Zhabotynsky, Mendele Mocher Sforim, Sholom Aleichem e il pittore Oleksandr Roytburd, a loro volta celebrati dalla città di Odesa.

Il rifiuto dell’identità russa è sempre stato percepito come una minaccia per l’Impero, bollato come nazionalismo o estremismo ucraino. La decolonizzazione di oggi, e il ritorno alla cultura e alle radici ucraine, vengono definiti dagli autori della lettera come «conseguenze di un trauma» che possa addirittura portare a «purghe culturali». È proprio la visione imperiale a far sembrare un processo naturale di riflessione sull’identità come qualcosa di sbagliato. Sembra che i firmatari della lettera non si siano ancora liberati della sindrome postcoloniale, considerando la cultura russa dell’ex metropoli imperiale superiore a tutte le altre, e riducendo le altre culture a un ruolo secondario o inesistente.

Oggi in Ucraina non ci sono divergenze tra il popolo e il governo sui temi della decolonizzazione e della derussificazione, né sulla riflessione sull’identità nazionale. Questo processo, iniziato all’inizio degli anni Novanta dopo la proclamazione dell’Indipendenza dell’Ucraina, si è intensificato negli ultimi anni a causa della guerra coloniale russa all’Ucraina. Non sono il governo, Zelensky o i radicali di destra a guidare questo processo, bensì la società civile ucraina. E noi sosteniamo la rimozione dei simboli dell’imperialismo russo, lo stesso imperialismo che punta le bombe contro i civili in Ucraina. Questa posizione è condivisa dai cittadini ucraini.

Non vogliamo cancellare la cultura russa, ma liberarci dalla maschera russa e sovietica, che ha a lungo oscurato la vera essenza della nostra terra e cultura. La guerra russo-ucraina è, prima di tutto, una guerra sull’identità. Per questo, per l’Ucraina, la decolonizzazione non è vendetta, bensì un tentativo di sopravvivenza.

Myroslava Barchuk è giornalista, documentarista, vicepresidente del Pen Ukraine

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