Tristi veritàPerché a casa cucinano le donne e nei ristoranti gli uomini?

È lo stesso motivo per cui al comando della maggior parte delle aziende di qualunque settore ci sono uomini e non donne. E, forse, è anche un po’ colpa nostra

Foto di Fatih Yavaşoğlu

Oggi è una giornata di celebrazione, e forse non dovremmo – proprio oggi – dire cosa non va nell’universo femminile.
Ma se vogliamo finalmente rompere questo soffitto di cristallo che in questo settore come in qualunque altro ci opprime e ci impedisce di avere la stessa dignità degli uomini, forse, dobbiamo iniziare da una lucida analisi dei nostri comportamenti.

E se è vero che il Rapporto ristorazione curato da Fipe-Confcommercio riguardante il 2023 ci dice che le attività a titolarità femminile sono 110.806, il 28,2 per cento del totale, e se il dato aumenta ma con un incremento risibile, e se è vero che su un totale di 385 cuochi solo 3 donne chef hanno ricevuto la Stella, nonostante l’Italia sia il Paese con il maggior numero di donne chef stellate al mondo, è altrettanto vero che al comando delle cucine e – in generale – nell’immaginario collettivo sostenuto dalla realtà, le donne cheffe sono un numero risibile rispetto al loro equivalente maschile. Esattamente come succede ovunque, però: in qualunque settore siamo in minoranza, in qualunque ambito siamo lontane dalla catena di comando, in qualunque dimensione aziendale siamo relegate a ambiti di minor prestigio.

Siamo brave, siamo caparbie, siamo studiose, ma non basta ancora, sembra non bastare mai. E allora, forse, a parte il fatto di partire da condizioni di minor favore, non è che siamo le prime a non riuscire a concretizzare davvero quello che pensiamo di volere? Non è forse che la nostra attitudine, seppur imposta da un’educazione decisamente slivellata, ci impedisce di andarci a prendere quello che dovrebbe essere anche nostro?

Dal nostro osservatorio, questo è decisamente un lavoro per uomini: per necessità fisiche, per caratteristiche intrinseche di orari e mole di lavoro, per necessità di sacrificio, ma soprattutto perché, proprio come tutti i lavori che prevedono una leadership, presuppone una concentrazione, una dedizione, un’attenzione totale. Nessun ruolo di rilievo è gratis: tutti i grandi personaggi che ho avuto la fortuna di incontrare avevano come unico mantra il lavoro, vero strumento di affermazione e di successo. Certo, servono anche il talento, la fortuna, l’atteggiamento. Ma lavorare sodo è quasi sempre la strada che porta a grandi risultati. In questo non c’è differenza tra uomini e donne: solo che alle donne è richiesto un ulteriore impegno domestico, che viene quasi dato per scontato. Il tempo da dedicare al lavoro, per affermarsi, è lo stesso a prescindere dal genere, ma il modo in cui viene occupato il resto del tempo della vita è profondamente sbilanciato tra uomini e donne.

Ne siamo condizionate, e – a volte – non vogliamo privarcene: pensiamo sia il nostro ruolo, ce l’hanno spiegato da piccole, e facciamo troppa fatica a eliminare i sensi di colpa nel non farlo. Forse, semplicemente, ci viene meglio e ci piace di più, forse è talmente interiorizzato da rendere difficilissimo scardinare lo status quo. Forse, quel ruolo dirigenziale che necessariamente presuppone rinunce alla vita privata, ma anche meno empatia, meno amicizie, meno condivisione, ci rappresenta meno e ci convince meno come modello di comando.

Ma, forse, non abbiamo ancora trovato il nostro modo per essere leader, e non abbiamo capito abbastanza a fondo quanto dobbiamo sacrificare di noi, del nostro essere, del nostro modello di riferimento, per prendere il posto degli uomini. Quelle poche che ci riescono, comunque, non guadagnano come loro. Ma almeno aprono una strada, fissano dei paletti, fanno la differenza: è solo questione di tempo. Nel mentre, decidere di cambiare, fare fatica nel farlo, scardinare i luoghi comuni è l’unico esercizio possibile. Sempre che si voglia davvero essere come loro.

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