La quantità e la varietà microbiche del latte e del formaggio sono strettamente correlate all’origine naturale e alle pratiche di produzione. Quanto meno nel caso dei prodotti ad Appellation d’origine protégée. Lo ha dimostrato una ricerca francese compiuta congiuntamente dall’Institut national de recherche pour l’agriculture, l’alimentation et l’environnement (Inrae), dal Commissariat à l’énergie atomique et aux énergies alternatives (Cea), dal Conseil national des appellations des origines laitières (Cnaol) e dal Centre national interprofessionnel de l’économie laitière (Cniel).
I ricercatori hanno analizzato 2.316 campioni di paste e croste ottenute da 1.158 formaggi diversi, rappresentativi di 44 delle 46 Denominazioni d’origine d’Oltralpe, coprendo così un campione estremamente significativo di specialità casearie. Dalla Normandia alla Corsica, dall’Alsazia alla Loira, dalla Provenza ai Paesi Baschi, i formaggi portavano inoltre in dono la ricchezza di tre tipi di latte: vaccino, ovino e caprino, utilizzati da soli o in miscela. Non solo, la gamma studiata rappresentava sette differenti tipologie di formaggio: dalla crosta lattica fiorita a quella fiorita morbida, dalla versione a pasta cotta alla crosta lavata, fino all’erborinato.
L’ingente campionatura è stata sottoposta a un sequenziamento genetico (di qui il coinvolgimento del genoscopio del Cea) per valutarne la dovizia e la diversità di organismi: dai lieviti alle muffe, fino al patrimonio batterico. Il risultato ha messo in luce per un verso una notevole ricchezza generale e d’altro canto una varietà ascrivibile ad almeno due fattori. «Lo studio – spiega Françoise Irlinger, del dipartimento scientifico di Microbiologia e catena alimentare dell’Inrae – mostra che l’impatto sulla diversità microbica dei latti e dei formaggi è determinato da una combinazione di caratteristiche specifiche di ogni Aop, ovvero i fattori geografici e le pratiche umane».
La continuità microbica tra latte e formaggio è evidente: «C’è un effetto stretto: una parte importante delle specie identificate nei formaggi lo è stata anche nei latti», conferma Irlinger. In effetti oltre il 42 per cento dei batteri e quasi il 64 per cento dei funghi riscontrati nei latti è stata poi ritrovata nei formaggi.
E la ricchezza del latte (in tutto ben 1.230 specie di batteri e 1.367 specie di lieviti/muffe) è ascrivibile alla parte naturale di ciò che i transalpini chiamano terroir, ossia la geografia con le sue specie botaniche, i climi e i microclimi, la stagionalità, la morfologia del territorio, eccetera.
La responsabilità delle pratiche antropiche è però altrettanto rilevante, se è vero che lo studio mette in luce un nucleo centrale del microbioma che unisce trasversalmente i vari campioni di latte: «Quattro specie microbiche: Moraxella osloensis, L. lactis, Romboutsia timonensis e Geotrichum candidum», rivelano gli autori della ricerca pubblicata sulla rivista Isme.
Non così invece per i formaggi, il che suggerisce che le tecniche seguite nel processo di produzione (i tempi di stagionatura, i materiali usati nella trasformazione – ad esempio il legno, i trattamenti della crosta, il processo di salatura…) siano determinanti nel tracciare l’identità del microbioma del formaggio finito. Quanto meno nelle specialità a denominazione protetta. Lo studio mostra però che i microbi di origine naturale sono sensibilmente più numerosi e vari di quelli introdotti deliberatamente dall’essere umano durante la trasformazione. Un argomento in più a favore della primazia del terroir.
È anche plausibile che un ruolo di arricchimento e di diversificazione lo ricopra il latte crudo. Anche se «è difficile confrontare i risultati ottenuti dal latte crudo rispetto a quello pastorizzato – precisa Françoise Irlinger – perché il piano sperimentale non era concepito con questo obiettivo, quasi l’86 per cento dei campioni studiati era a latte crudo». Un dato che sembrerebbe avere anche implicazioni alimentari e nutrizionali. Secondo il dipartimento comunicazione dell’Inrae «batteri, lieviti e muffe presenti nel latte e introdotti durante la fermentazione permettono di conferire gusto e trama gustativa al formaggio, e partecipano alla formazione della crosta, contribuendo altresì ad aumentare la ricchezza del microbiota intestinale dei consumatori». Una faccenda di gusto, quindi, ma verosimilmente non solo.
La ricerca è ritenuta di particolare interesse anche in una chiave prospettica: «I prodotti tradizionali – concludono gli autori – come i formaggi a denominazione d’origine protetta, influenzati da fattori geografici, sono particolarmente vulnerabili agli effetti del cambiamento climatico sulla zootecnia». E questa base di dati si propone come supporto per le iniziative che devono e dovranno prendere i decisori politici ed economici per preservare il Camembert fermier de Normandie, il Reblochon de Savoie, il Roquefort, il Brocciu còrso o il Crottin de Chavignol.