Fratelli d’UngheriaCambiare i giudici, non la legge: l’ennesimo pastrocchio del governo sui richiedenti asilo

Sara Kelany, del partito di Giorgia Meloni, ha proposto un emendamento per modificare i magistrati che possono giudicare i casi di migranti. Una soluzione temporanea e inefficace perché ad avere l'ultima parola saranno comunque la Cassazione e la Corte di giustizia europea

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L’America che un tempo ha visto figure come Franklin Delano Roosevelt, John Fitzgerald Kennedy, Bob Dylan, John Rawls, Martin Luther King, Woody Allen e che ha dato vita a movimenti per i diritti civili, sembra ormai un ricordo lontano. E anche l’Italia non se la sta passando bene. Da noi, quegli stessi freak che Donald Trump sta ora accogliendo nel suo governo, sono già protagonisti da tempo nei ministeri, in Parlamento e nei talk show.

L’ultimo significativo episodio risale a un paio di giorni fa: l’inserimento nell’ultima versione del “decreto flussi” di un emendamento che prevede il trasferimento della competenza relativa ai procedimenti di convalida del provvedimento con cui il questore dispone il trattenimento, o la proroga del trattenimento, del richiedente protezione internazionale. Tale competenza passa dal Tribunale alla Corte d’appello nel cui distretto ha sede il questore che ha adottato il provvedimento, con un giudizio in composizione monocratica.

L’autrice della proposta è la parlamentare di Fratelli d’Italia Sara Kelany, relatrice in Commissione Affari costituzionali del decreto in questo la cui approvazione sembra già scontata. Difficile dire se sia più stupefacente l’approssimazione della proposta, il sentimento di arroganza che ne emerge, o la sua totale inutilità che evidenzia un’evidente incompetenza sulla materia.

In poche parole: poiché i giudici delle varie sezioni dei tribunali italiani specializzate nell’immigrazione continuano a bocciare i trattenimenti in Albania, la maggioranza al potere, con un colpo di penna, cambia direttamente i giudici, sostituendoli in blocco con i colleghi delle Corti d’appello. È come se un allenatore di calcio, disperato, decidesse di sostituire tutta la squadra con un’altra.

Il tutto riflette lo stato di confusione e di esasperazione che caratterizza chi guida il paese. Stiamo parlando di una questione che, a oggi, riguarda solo poche decine di casi, ma che costa tantissimo in denaro. Sprezzanti del ridicolo e indifferenti alla desolazione delle immagini che mostrano lo sbarco di quattro disperati circondati da battaglioni su navi da crociera, Meloni e i suoi continuano a proporre ulteriori trovate. Del resto, vanno capiti: hanno vantato «nell’orbe terracqueo» la genialità di questa ideona, figurarsi se ora rinunciano.

Cambiare rapidamente il giudice di una delicata procedura è, nella sostanza, un attacco all’autonomia della magistratura, come sottolinea l’Unione delle Camere Penali in un comunicato particolarmente severo. L’associazione lamenta «il persistente convincimento della maggioranza che le decisioni dei giudici siano dettate da ragioni politiche e rappresentino una violazione del principio di separazione dei poteri dello Stato», difendendo la correttezza delle decisioni dei tribunali.

Si tratta di un gesto di pura frustrazione, un calcio di ritorsione all’avversario, un «vaffa» all’arbitro. Una decisione prima di tutto insensata, che rivela ignoranza delle norme e, soprattutto, dei confini giuridici della questione.

Innanzitutto, l’iniziativa è del tutto inutile, poiché tra pochi giorni, il 4 dicembre, la Prima sezione civile della Corte di Cassazione deciderà sui ricorsi promossi dal ministero dell’Interno contro i provvedimenti di rigetto dei trattenimenti in Albania. Qualunque sia l’esito, sia che si tratti di annullamento o di conferma dei decreti del tribunale, sia di rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea per chiarire definitivamente il concetto e i criteri di selezione dei paesi sicuri, lo sgarbo verso i giudici da parte della maggioranza risulterà completamente inutile. Infatti, anche le Corti di appello non potranno fare altro che uniformarsi a quanto stabilito dalla Cassazione o dalla Corte di Lussemburgo. E allora, valeva davvero la pena fare tutto questo? Qual è il senso, se non mandare l’ennesimo avvertimento ai magistrati?

Ma sbaglieremmo di grosso a ridurre la questione a una mera manifestazione di rabbia: dietro c’è un’assoluta convinzione che sia giunto il momento di saldare i conti con un soggetto istituzionale avverso, la magistratura, e con la stessa struttura dello Stato di diritto. Un sistema concepito da Montesquieu e recepito dalla Costituzione, visto come un inutile ostacolo, una pietra d’inciampo tra il flusso di volontà del popolo e quello del leader di turno che non ha bisogno di mediazione. L’orizzonte di riferimento è rappresentato dall’Ungheria di Viktor Orbán e dall’America di Trump e di Capitol Hill.

Quanto questo cupo epilogo sia stato influenzato dalla stessa magistratura ai tempi di Mani Pulite, e quanto quell’esperienza, nella sostanza, abbia avuto conseguenze destabilizzanti per le istituzioni, lo dirà, si spera, la storia in tempi migliori di questi. Oggi, non resta che augurarsi che tutti comprendano l’importanza di essere e di dirsi garantisti.

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