Da mesi in Israele si discute della ricostruzione dei kibbutz. Mentre le comunità di confine dissotterrano i propri morti dalle tombe temporanee, per poi seppellirli di nuovo con un degno funerale nei loro cimiteri – a distanza di un anno e un mese non sono più zone militari chiuse –, diventa imperativo affrontare il tema delle macerie: che fare delle case bruciate e sventrate, delle ceneri, dei buchi di granata e di proiettile? Il lutto rimane, congelato sotto il sole. «Dal 7 ottobre dell’anno scorso viviamo un unico lungo giorno. Sembra che tutto sia successo ieri», racconta Ido Felus, del Kibbutz Kfar Aza.
La necessità di lavarsi gli occhi dalle immagini di cenere e sangue e di ricominciare a vivere, anche solo per rendere omaggio a chi non ce l’ha fatta, si scontra con la tendenza umana a trasformare le proprie emozioni in un monumento duraturo. Secondo alcuni, va tutto conservato così com’è, «come ad Auschwitz», per permettere alle persone di venire a vedere cosa è successo qui. Altri obiettano giustamente che «nessuno può vivere ad Auschwitz, in uno scenario insopportabile».
Una delle opzioni è quella di ricostruire i kibbutz a diversi metri di distanza dalle macerie degli originali. Oppure si potrebbero rimuovere i resti e ricostruirci sopra, conservando un memoriale per elaborare il lutto, un memento degli errori da non ripetere. Oppure neppure quello, affinché «il giorno peggiore della nostra storia non definisca il nostro futuro». Mentre camminiamo tra i resti del Kibbutz Be’eri, il residente Lior Alon, sopravvissuto con alcuni membri della sua famiglia, ci spiega: «Non ce lo dimenticheremo mai cos’è successo. Ma almeno i nostri figli non dovranno crescere avendo sempre sotto gli occhi la prova tangibile della tragedia, e rivivere l’incubo a ogni passo».
Le pareti butterate dei palazzi tristi, accartocciate su se stesse, non fanno più neanche lo sforzo di guardare in faccia chi arriva. Salotti sviscerati improvvisamente invecchiati cent’anni, soffitte cadute in cantina, cucine esplose e ricordi calpestati che non appartengono più a nessuno. Chi doveva recuperare qualcosa – un ricordo, il forno a legna dei genitori assassinati, la tavola da surf del figlio sepolto –, l’ha già fatto. Tutto il resto, sparpagliato tra le erbacce, aspetta un bulldozer che se lo porti via, cancellando, un passaggio per volta, quell’orribile sabato nero. «Non so se sia fattibile, ma l’opzione migliore secondo me sarebbe sollevare le case bruciate e trasportarle in un’area-museo lontana dalla proprietà del kibbutz», dice Ido a Linkiesta: «Non possiamo vivere con turisti che vengono a ripetere cosa è successo, indicando le nostre case».
Sul trauma che non tramonta vegliano i fantasmi di centouno ostaggi ancora nascosti, da oltre un anno, tra le pieghe di quei trecentosessantacinque chilometri di Striscia, caduti nelle mani dei militanti di Hamas diciassette anni fa, e i suoi cinquecento chilometri quadrati di tunnel sotterranei. Ma non si può vivere tra i fantasmi. «Il mio sogno è di tornare a vivere nel kibbutz, nel mio paradiso. Ma non torneremo lì senza gli ostaggi», dice Ido. «La prima e più importante faccenda da risolvere è che gli ostaggi tornino da noi. Tutto il resto, la ricostruzione, i memoriali, si vedranno dopo». Al momento, solo i membri della guardia civile sono tornati a vivere a Kfar Aza, mentre la maggior parte dei residenti sono nel vicino Kibbutz Ruchama.
Con l’idea, ancora lontana dalla realizzazione, di tornare a vivere una vita normale nei kibbutz, il governo israeliano ha istituito la Tkuma Directorate, guidata da Moshe Edri, per rispondere alle diverse esigenze emerse sul campo e facilitare la riabilitazione e il ritorno dei residenti. Il piano edilizio, che comprende non solo la ricostruzione delle abitazioni, ma anche degli spazi pubblici, degli asili, delle scuole, delle strade, degli uffici, dei cavi elettrici e delle infrastrutture danneggiate dagli attacchi del 7 ottobre, prevede un budget complessivo di un miliardo e mezzo di sicli israeliani, da ripartire tra le quarantasei comunità della regione.
Il processo di ricostruzione è parte integrante della terapia di riabilitazione; di conseguenza, i fondi non sono destinati esclusivamente alle riparazioni, ma anche a migliorie che possano aiutare i residenti a superare lo shock. «Anche solo ridipingere le pareti esterne degli edifici di un altro colore può fare la differenza», spiegano dalla Tkuma Directorate. La promessa fatta è di non limitarsi a ripristinare la situazione iniziale, ma di rinnovare la regione, rafforzando la resilienza nazionale e la sicurezza dei residenti: «Build back better».
Per questo, saranno le comunità a guidare i progetti, e non lo Stato. «Vogliamo che tutti siano coinvolti nel processo. Noi di Tkuma abbiamo il controllo del budget e ci occupiamo di risolvere le complicanze e di ottenere i permessi statali per le demolizioni e le costruzioni, ma – e questo è fondamentale – saranno i leader delle comunità e i residenti a prendere le decisioni, in modo democratico, e a guidare i progetti», spiegano.
Il kibbutz Be’eri – di cui centouno membri sono stati assassinati e undici sono ancora in ostaggio – è stato il primo, a giugno, a iniziare la rimozione delle rovine presso l’area adiacente alla sala da pranzo comune, dalla quale si passa necessariamente almeno una volta al giorno. Pur non avendo ancora deciso cosa fare del quartiere più martoriato – la zona ovest da cui sono entrati i terroristi che hanno distrutto la recinzione – Be’eri ha iniziato i lavori preliminari per la costruzione di un nuovo quartiere, Sichemim (sicomori), che ospiterà cinquantadue nuove case a fronte delle centocinquanta distrutte e delle ulteriori cento di cui è prevista l’evacuazione.
I lavori previsti dureranno circa due anni, e nel frattempo alcuni membri vivono in un kibbutz temporaneo accanto a Hatzeri, nel Negev, inaugurando un nuovo modello di «comunità di vicinato», in cui entrambe le comunità mantengono le loro identità indipendenti, pur vivendo in un ambiente collettivo familiare. Gli scavi per il nuovo quartiere sono solo all’inizio e procedono lenti, ma la presenza delle ruspe suggerisce il desiderio di tornare nelle proprie comunità. Tuttavia, alcuni kibbutz, troppo sconvolti dal lutto, dalla devastazione e dall’attesa della liberazione degli ostaggi, hanno chiesto di rimandare le discussioni per la ricostruzione a un secondo momento. «Qui a Kfar Aza le cose stanno procedendo molto lentamente», spiega Ido, «proprio perché siamo fermi sulla questione degli ostaggi. I primi lavori di rimozione delle macerie sono iniziati solo la settimana scorsa, e solo in una zona molto ristretta. Abbiamo bisogno di più tempo».
In collaborazione con il ministero dell’Istruzione, Tkuma ha formulato un piano per rafforzare il quadro terapeutico, emotivo e di supporto per gli studenti della regione. Per incentivare i giovani a tornare a vivere nel kibbutz ed essere coinvolti della comunità, è stato chiesto a Tkuma di finanziare delle borse di studio, ma l’agenzia ha rifiutato. «Sogno che Kfar Aza diventi così attrattiva da far desiderare persino ai residenti di Tel Aviv di trasferirsi qui. Il progetto delle borse di studio è comunque proseguito, grazie ai fondi comuni del kibbutz», spiega Ido. Inoltre, con un budget a parte stabilito con il ministero della Difesa, verrà affrontato il tema della sicurezza: recinti, muri, telecamere di sicurezza, rifugi e risorse umane. «Dovremo trovare un equilibrio tra le misure di sicurezza e il desiderio dei residenti di vivere una vita normale», spiegano a Tkuma.
Alcuni residenti concordano sul fatto che i kibbutz siano stati concepiti, e debbano rimanere, come luoghi di vita pacifica: se venissero trasformati in avamposti militari, circondati da recinzioni, telecamere, veicoli blindati e soldati armati, molti potrebbero scegliere di non fare ritorno. Di diverso parere è Ido Felus, che a Kfar Aza si augura un rinnovato senso di sicurezza, anche a costo di una militarizzazione dell’area: «Dobbiamo sentirci al sicuro a ogni ora del giorno e della notte. Se l’installazione di telecamere e infrastrutture militari contribuirà a garantirci la sicurezza, non sarò contrario. Anzi, spero che dalle nostre case potremo vedere i militari impegnati a difenderci».