Ascolta la nuova puntata de “La teoria della moda”, il podcast di Giuliana Matarrese per Linkiesta Etc, cliccando qui – Nel film del 1994, “Prêt-à-Porter”, Robert Altman racconta un mondo della moda scosso dal presunto omicidio del presidente del Fashion council francese, all’alba della Fashion week parigina, anche se il pubblico sa già dall’inizio che invece si è solo trattato di uno sfortunato caso di soffocamento con un sandwich. Nel ritmo vorticoso delle sfilate si alternano la giornalista di grido Kitty Porter, che va nel backstage a intervistare (il vero) Thierry Mügler; Jean Paul Gaultier che chiede al cameriere un rosé, e quello provvede semplicemente a mischiare nel bicchiere il vino bianco e quello rosso. Bjork, invece, sfila per lo stesso direttore creativo, come successe davvero in occasione della collezione autunno-inverno 1994.
Poi, una serie di colpi di scena variegati che includono della nudità e tre giornaliste, rispettivamente del British Vogue, di Elle e di Harper’s Bazaar che si contendono i favori del fotografo più ricercato, il cui unico sadico obiettivo è quello di umiliarle. Il film fu un fiasco, sia al box office che presso i critici cinematografici. I giornalisti di moda, neanche a dirlo, non presero benissimo l’idea di essere ridicolizzati.
Nel dicembre 1994 Suzy Menkes scrisse che «la gente della moda, semplicemente non ha capito se sia stato un lungo sketch o va considerato come una brutale e malevola analisi dell’industria». Karl Lagerfeld, stizzito dall’idea di essere definito nel film «un plagiario», cercò di impedire l’uscita della pellicola in Germania, e ne ottenne soltanto la cancellazione di quella frase, per la distribuzione nel suo Paese.
Molti anni dopo, esattamente trenta, in un’epoca nella quale la moda è oggetto di una ben più ampia rappresentazione cinematografica e televisiva, viene naturale tornare a riflettere su quel film. Un prodotto cinematografico, quello di Altman, forse non perfettamente riuscito, che sospendeva il giudizio sui protagonisti e sulla ineludibile vacuità degli attori – non certo di Thierry Mügler e Jean Paul Gaultier, ironici e provocatori abbastanza per prendere parte al progetto consapevoli delle probabili conseguenze.
Però, al netto di questi difetti, “Prêt-à-Porter” rimane probabilmente uno degli affreschi più onesti e irriverenti sul mondo della moda. Una visione laterale e non agiografica che servirebbe moltissimo a chi, oggi, decide di confrontarsi con questo universo, anche solo per irriderlo, esporlo con tutti i suoi difetti e le idiosincrasie. Avrebbero fatto meglio a rivederlo, ad esempio, gli sceneggiatori de “La maison”, la serie di dieci puntate (mentre scriviamo, sono disponibili nove episodi) distribuita da Apple TV+. Ci sono due case di moda con correlate famiglie che si contendono il trono dello stile nella capitale della moda, Parigi. Nel cast figura anche Carole Bouquet nel ruolo dell’amministratrice delegata priva di scrupoli che tenta di acquistare la maison concorrente. Ogni vago riferimento alle due famiglie francesi che da quarant’anni si contendono nella realtà il predominio sulla moda, gli Arnault e i Pinault, è obbligatoriamente casuale.
Una premessa stuzzicante, se non fosse poi per lo sviluppo del prodotto, che vorrebbe esser preso sul serio ma che invece fa scappare da ridere, e che fa rimpiangere i siparietti tra altre due famiglie, i Forrester e gli Spectra di “Beautiful”. Su YouTube è ancora disponibile lo spezzone nel quale Sally Spectra, matrona della maison omonima, ben più sfacciata dei raffinati Forrester, si vantava con la nemica Stephanie di aver ingaggiato uno stilista francese, tale Beau Rivage. Al che, la matrona assoluta della dinastia rispondeva stizzita: «Chi diavolo ha mai sentito questo nome nel campo della moda? Chi è, un altro stilista fallito di cui si serve?».
Questo scambio di battute, da solo, è più ricco e di intelligente camp di quanto non lo sia Carole Bouquet che sussiegosa, dice al nemico: «So come mi chiamate: la pescivendola». Il creativo principale della maison Ledu, è poi lo stereotipo dello stilista diva, che si fa beccare mentre inveisce contro tutta una nazione (la Cina) con conseguente shitstorm, e la notizia che passa di bocca in bocca negli uffici stile con l’impiegata che dice (traduciamo non letteralmente): «Ledu ha fatto una Gallianata».
Il riferimento è allo scandalo del 2011 che travolse John Galliano, anche se, nella realtà, chi improvvisamente si è scagliato contro gli acquirenti cinesi, è stato un altro stilista. Non è ancora dato sapere cosa succederà alla famiglia e al brand, ma le premesse non sono esattamente esaltanti, anche per chi non si aspettava certo un “Succession” parigino. La realtà è che negli ultimi anni le piattaforme di streaming e le case cinematografiche sembrano aver scoperto il vasto patrimonio umano di storie mitologiche che pullulano nel sistema della moda, ma non sembrano ancora capaci di maneggiarlo.
“Becoming Karl Lagerfeld”, “Cristóbal Balenciaga”, “The New Look”, “Halston”, “House of Gucci”, sono solo alcuni dei titoli che negli ultimi anni abbiamo visto sul grande e piccolo schermo. Prodotti realizzati senza badare a spese: si assoldano i migliori registi (Ridley Scott per “House of Gucci”); si realizzano colonne sonore epiche come quella de “The new look” (disponibile su Apple TV+) in cui appare Nick Cave che canta “La vie en Rose” di Edith Piaf e i Florence and the Machine che rifanno “The White Cliffs of Dover”; si scritturano attori di fama mondiale (Ewan McGregor è Halston, Patrizia Reggiani è interpretata da Lady Gaga e Daniel Bruhl veste i panni di Karl Lagerfeld).
Una rivoluzione silenziosa, che è stata resa possibile non solo da sceneggiatori che si sono accorti, pur con diversi decenni di ritardo, del potere “cinematografico” delle storie dei grandi stilisti, ma anche dalle stesse maison. Dopo decadi nelle quali il mistero che avvolgeva gli uffici stile e le vite che ai loro interni si conducevano è stato considerato dallo stesso sistema parte integrante di quel fascino che si voleva veicolare all’esterno, le contingenze economiche, così come la necessità imposta dai social di raccontare ai propri clienti, o ai potenziali tali, il proprio valore storico, hanno concesso una riscoperta di storie uniche ed eccezionali.
I risultati, però, proprio per via di questo valore di unicità, sono stati spesso discontinui: senza citare il fallimento di “The house of Gucci” – con Jared Leto che ha vinto la categoria di “peggior attore non protagonista” ai Razzie Awards –, la difficoltà di confrontarsi con storie che a volte sembrano irreali, per quanto eccessive, è tangibile in diversi dei prodotti sino ad oggi realizzati. Laddove poi, sia coinvolta nella produzione anche la maison stessa, magari attraverso il prestito di abiti d’archivio, o delle reali sedi dei brand, il pericolo agiografia è dietro l’angolo.
È stato il caso di “The New Look”, alla cui produzione la maison Dior ha concesso l’ingresso negli atelier per studiare il vestito con lo stesso nome: oltre ad essere interpretato da un attore che ha fisicamente poco a che fare con la figura del couturier francese, tutto il suo personaggio è costruito intorno ad una serie di valori assoluti con i quali Christian non si compromette mai, un uomo pio, dedito alla famiglia, privo di difetti.
In altri casi, gli eccessi sono tutto ciò che per i registi è interessante raccontare di un creativo: Halston, uno dei pochi stilisti americani capaci di influenzare lo stile della vecchia Europa (e infatti Tom Ford ammette di esserne da sempre ossessionato, tanto da essersi comprato in passato la sua casa newyorchese) è ridotto a un fascio di nervi, idiosincrasie e ossessioni l’una più irritante dell’altra, interessato più al cruising nel retrobottega dello Studio 54 che a una qualunque velleità creativa. Non solo in quel caso diventa impossibile empatizzare con un essere umano ridotto ai suoi eccessi, ma è difficile anche capire dove sia il genio.
Quali riflessioni sullo spirito del tempo lo hanno portato alla creazione di quegli abiti minimali, ma sontuosi nei tessuti, indossati dalla cantante statunitense Liza Minelli, da tutte le sue Halstonettes, amiche e sodali di serate allo Studio 54, e poi desiderati dal resto delle donne? Attraverso la serie è difficile decifrarlo, tutto sembra accadere per via del suo abbacinante fascino, che piega ai suoi desideri sodali e testimonial, amministratori delegati e principesse del jet-set. La serie omonima su Cristobal Balenciaga è di un altro spessore, ma la maniacale riservatezza dello stilista spagnolo – che chiuse la sua maison nel 1968 – non ha aiutato gli sceneggiatori a dare profondità al suo personaggio, che era un eccelso couturier, ossessionato dalla perfetta silhouette, e che era un uomo gay nato nella cattolicissima Spagna.
Infine “Becoming Karl Lagerfeld”, serie disponibile su Disney+ dedicata all’omonimo stilista, racconta lo stilista tedesco solo in funzione della sua rivalità con Yves Saint Laurent e della querelle sentimentale tra i due, al centro della quale c’era Jacques De Bascher, compagno di lunga data del primo e amante occasionale del secondo, morto di AIDS nel 1989. Estremamente riservato, Lagerfeld (1933-2019) ha parlato solo in rarissime occasioni di De Bascher, sostenendo di aver sempre avuto con lui una relazione profonda ma platonica, e di essere poco interessato, in generale, all’aspetto fisico delle relazioni umane.
Nella serie tv questa rispettabile inclinazione – la comunità asessuale esiste, seppur molto poco studiata dalla scienza – viene tramutata in un melò, raccontando Lagerfeld come un uomo che soffre la sua incapacità a essere fisicamente vicino all’uomo amato, che vorrebbe ma proprio non ce la fa, a giacere con De Bascher (o con chiunque altro).
Un altro discorso vale per i documentari, che in generale sembrano più capaci di raccontare le complessità dietro gli esseri umani. Se in passato sono stati encomiabili i progetti di “Dries” (dedicato a Dries Van Noten), “Dior and I” (Raf Simons nei suoi anni da Christian Dior), “McQueen” (incentrato su Alexander McQueen), nel presente si sono fatti notare “High and Low” (sul percorso di caduta e rinascita di John Galliano) e “Kingdom of dreams” (serie prodotta da Sky in quattro puntate che parla della genesi del fashion system così come è oggi).
Prodotti di alta qualità che però per la loro specificità riescono ad attrarre solo gli addetti ai lavori. Eccezioni a questa regola sono stati in passato “L’amour fou”, documentario su Saint Laurent con la voce narrante del suo compagno di una vita, Pierre Bergé, che leggeva le loro lettere, così come “L’ultimo imperatore”, dedicato a Valentino Garavani, la cui forza risiedeva proprio nel mettere di fronte allo spettatore un creativo privato dei filtri degli uffici stampa: Garavani è istrionico, geniale, e però risulta più umano laddove litiga con il suo compagno di avventure di una vita intera, Giancarlo Giammetti, per le pettinature delle modelle, per i vestiti, e in generale per qualunque piccineria sulla quale si accapigliano da anni le coppie di lungo corso (negli affari e nella vita sentimentale).
Laddove sono però coinvolte le maison o i giornali, il desiderio di autocelebrarsi prende la meglio: è stato il caso di “The super models” (su Apple TV+, che raccontava l’origine del mito di Linda, Cindy, Naomi e Christy, donne alle quali non servivano i cognomi per essere riconosciute e idolatrate) e il più recente “In Vogue The 90’s”, documentario presente su Disney+, che racconta l’epopea del magazine guidato in America da Anna Wintour, ma anche il mondo della moda in quegli anni di grande cambiamento.
Tra gli ospiti invitati a esprimersi ci sono personalità come Marc Jacobs, Hilary Clinton, Gwyneth Paltrow e Missy Elliot, John Galliano e, ovviamente, la stessa Wintour. Se Vogue ha indubbiamente cambiato l’editoria di moda, l’impressione è che Wintour e chi ha girato il prodotto, pensino al resto del mondo fuori dai confini americani come ad una remota provincia da educare. Un prodotto di colonizzazione culturale che fa passare il concetto che «Donna Karan è stata il più grande talento di moda degli anni Novanta», una dichiarazione di un giornalista dell’epoca, o che «Calvin Klein, Donna Karan e Ralph Lauren regnavano nel mondo della moda».
Con il rispetto che si deve a figure che hanno avuto una grande influenza, anche al di fuori dei confini del loro Paese, sembra un’esagerazione abbastanza roboante: il mondo non si misura sulla base degli standard americani, soprattutto il mondo della moda. Molto interessante è, invece, la puntata dedicata all’influsso e all’importanza della cultura black e del mondo dell’hip hop, con un ospite d’eccezione come Dapper Dan, il sarto di Harlem. Inoltre, è abbastanza evidente la mancata citazione del Vogue Italia, l’edizione del magazine che negli anni Novanta era considerata dagli addetti ai lavori quella da possedere e collezionare.
Se il Vogue America ha sempre risposto alle necessità del suo mercato, con una Bibbia più comprensibile a un pubblico di massa, che metteva le celebrities in copertina molto prima che divenisse uso comune, Vogue Italia si è interessata al mondo che gli girava intorno, raccontandolo e filtrandolo attraverso l’occhio della moda. Un’operazione rischiosa che Franca Sozzani stessa racconta nel documentario “Franca: Chaos and Creation” (su Amazon Prime Video) del quale non le viene reso il giusto merito.
In questo senso, risulta una boccata d’aria fresca “Diane von Furstenberg: woman in charge”, documentario dedicato all’omonima stilista su Disney+: è la stessa creatrice a raccontare la sua storia, ma si percepisce chiaramente una certa pacificata serenità con il suo passato e il suo presente. Poco interessata a glorificarsi, il mondo che racconta è diverso dal nostro, ma certe odiose abitudini sono le stesse che conosciamo. Nelle interviste d’epoca, invece di concentrarsi sui risultati della stilista, capace di creare il wrap dress amato da tutte le donne, e farlo ad un costo sostenibile (ottantasei dollari), i giornalisti le chiedono conto delle sue acconciature, o della bontà di indossare in tv delle calze a rete.
Il privilegio è però raccontato senza moralismi: sposarsi con un principe (Egon von Furstenberg) ha avuto di certo i suoi vantaggi, come ottenere un incontro con la direttrice di giornale più rilevante dell’epoca, Diana Vreeland, che conosceva suo marito. Sono però vantaggi che la stilista sceglie di abbandonare quando divorzia, per liberarsi dalle costrizioni e divenire una imprenditrice, e non solo “la moglie di”, ma una “woman in charge”, come sostiene il titolo.
Questo documentario ha il merito di non togliere niente alla grandezza dei suoi soggetti, seppur dissezionandone con precisione i limiti ma pure gli eccessi, come quel ménage a trois con Mick Jagger e David Bowie al quale Diane disse no. Eccessi sui quali molti altri prodotti sorvolano, preferendo che i soggetti si scrivano una loro agiografia esente da cadute e fallimenti, come tutti noi esseri umani. A un certo punto nel documentario Diane von Furstenberg, a suo agio nelle relazioni sentimentali con gli uomini così come con le donne, dice di essere stata espulsa dal collegio, ma di non ricordarsi per quale preciso motivo, «credo che sia stato perché avevo una relazione con una donna» vagheggia sul divano del suo appartamento newyorchese.
Una frase che ci ricorda quanto ciò che ci sembra definitivo, come un’espulsione dal collegio, un fallimento ignominioso da cancellare quanto prima, nel grande quadro delle cose è un avvenimento del quale ricordarsi neanche troppo bene, se si dispone di una vita vissuta a pieno. E di vite vissute a pieno nell’universo della moda ce ne sono molte: quella che manca è la capacità di guardarsi dentro, e farlo con la dovuta e necessaria leggerezza che la distanza dagli eventi ci concede. Non volersi tramutare in un santino da venerare, ma ricordarci quello che ci accomuna, come esseri umani imperfetti, più che quello che ci divide (perché quello è abbastanza chiaro). E se proprio non siamo capaci di guardarci dentro, almeno prendiamoci un po’ in giro. Altrimenti dimostreremo che Robert Altman ha sempre avuto, in fondo, ragione.