Oramai c’è un gin diverso in ogni posto in cui si va e ogni ingrediente, anche il più strano, sembra poter diventare la botanica di un gin. Ma, sebbene negli ultimi anni l’offerta di etichette si sia moltiplicata a dismisura, i consumatori sembrano non essere affatto stanchi del distillato al ginepro e accanto al tradizionale Gin & Tonic, stanno anzi emergendo molti altri drink a base gin, come raccontavamo in questo articolo.
In un panorama così variegato, i brand cercano ognuno la propria strategia di posizionamento e certe volte proprio un cocktail in particolare può essere utile per raggiungere il segmento di consumatori che si sta cercando di incuriosire. È il caso di Martin Miller’s, firma di gin inglese importato in Italia da Compagnia dei Caraibi, che sta puntando sul Martini, uno dei più iconici tra i drink, come racconta a Linkiesta Gastronomika Danil Nevsky, global brand ambassador di Martin Miller’s.
Cos’è il Martini per un gin
Sessanta millilitri di gin e dieci millilitri di vermouth dry. Tra le ricette dell’International Bartenders Association (IBA) gli ingredienti di un Dry Martini sono semplicissimi, così come lo è la regola della temperatura di servizio, che deve essere glaciale. Poche nozioni che rientrano tra quei rudimenti fondamentali che un bartender non può non padroneggiare. Va da sé che, con una tale preponderanza del gin, questo distillato diventa un ingrediente fondamentale e anche piuttosto evidente al momento del sorso. E il cocktail si trasforma in una prova del nove. «Il Martini è un ottimo modo per giudicare un gin – dice Danil Nevsky – Se un gin è buono, dovrebbe prima di tutto essere buono in un Martini». Certo, definire una cosa “buona” entra comunque nel campo dei giudizi personali. Ma c’è un paragone che chiarisce la questione. «Un Martini è la cosa più facile del mondo, ma è anche la più difficile. È come un piatto di spaghetti al pomodoro. Semplicissimo, ma a seconda di come lo prepari cambia eccome e cambia anche in base alla qualità dei tuoi ingredienti».
Martin Miller’s e le due distillazioni
Una delle ragioni per cui Martin Miller’s cerca la valorizzazione nel Martini, secondo Nevsky, ha a che fare anche con le sue caratteristiche e con le scelte che sono state fatte a livello produttivo per mettere in evidenza le botaniche. «Martin Miller’s è prodotto con un doppio processo di distillazione – spiega il bartender – Nella maggior parte dei London Dry gin, si distilla tutto in una volta sola, invece in questo caso si prendono le botaniche più intense, come la cannella e lo stesso ginepro, e le si distillano in un alambicco. Con un procedimento distinto si distillano poi tutte le botaniche agrumate, come l’arancia e il limone. Successivamente si uniscono i due distillati in una proporzione specifica per creare il gin. Si tratta di un aspetto fondamentale, perché certe volte gli aromi agrumati, i più leggeri, rischiano di perdersi, invece in questo modo si ottiene un profilo aromatico più equilibrato e distinto rispetto ai tradizionali gin in stile London dry, con botaniche agrumate molto più pronunciate». Un risultato che è il caso di valorizzare con un drink che metta in evidenza il gin come ingrediente. «Come sappiamo, molto spesso il Martini viene guarnito con una scorza di limone. È come se si volesse reintrodurre gli agrumi nel Martini. Invece nel caso del Martini fatto con Martin Miller’s gin, questa guarnizione non è necessaria perché gli agrumi sono già presenti».
Quale Martini?
Di Martini però ne esistono moltissime versioni, per non parlare dei twist che vengono inventati ogni giorno tra i banconi di tutto il mondo. «Un gin è un po’ come una tela. Può avere una certa forma, una texture o una tonalità che rendono un Martini diverso, mentre il vermouth, la tecnica di miscelazione e la guarnizione sono un po’ come i colori che utilizzerai sulla tela – afferma Nevsky – Martin Miller’s può essere utilizzato in tutte le ricette più classiche perché si adatta molto bene al profilo, soprattutto nella sua versione Westbourne, che ha una gradazione leggermente più elevata (46% anziché 40% vol, ndr). Ciò di cui bisognerà tenere conto sarà il carattere agrumato delle sue botaniche, che risulterà accentuato nel drink». A proposito, una ricetta la trovate anche in questo articolo.
Tra Dirty Martini e twist vari, Nevsky indica anche uno degli ultimi trend in voga tra Spagna e Portogallo. «Sta andando molto di moda l’Oyster Martini. Servono ostriche freschissime, dalle quali si prendono dieci millilitri d’acqua salina, poi si usa lo Sherry Fino al posto del Vermouth, gin e si serve il drink con ostrica in abbinamento». Gli ingredienti sono ben caratterizzanti, ma il ruolo della “tela” resta fondamentale.
Il Martini è anche una questione di status
Capito il Martini e capito il gin, non resta che capire chi lo ordina. «Dipende da paese a paese e da cultura a cultura – spiega Nevsky – In generale è un drink che piace molto agli addetti del settore. In Italia ad esempio piace a molti bartender. Ci sono persone che per questo drink vanno matte proprio perché vi associano tutte quelle icone del cinema di una volta, le ambientazioni felliniane, gli artisti, il jet set, gli scrittori e i poeti che amavano sorseggiare questo drink e godersi la vita tra piscine, macchine di lusso e vite spericolate». Il Martini può evocare tutto questo, ma ogni paese ha le sue particolarità. «A Londra è il drink di chi lavora nella finanza o di chi, dopo una lunga giornata di lavoro in ufficio, ha bisogno di staccare, rilassarsi e prepararsi per la serata. Gli amanti del Martini sanno cosa vogliono bere, hanno un livello di istruzione medio-alto e la fascia di età si alza, anche se questo dipende. Ad esempio, non è insolito vedere dei venticinquenni negli Stati Uniti che bevono Martini per apparire più sofisticati». Un drink associato a un certo tipo di status e di aspirazione, quindi, ma anche una fascia di consumatori che è saggio cercare di fidelizzare.