Una delle maggiori preoccupazioni che avevano i parenti dei soldati durante la guerra civile americana era che i loro cari morissero lontani da casa. Il fratello di un soldato confederato della Georgia caduto in battaglia scrisse «che il suo unico desiderio era quello di morire in casa». Anche Jimmy Carter, scomparso all’età di cento anni (nella sua casa a Plains, in Georgia), aveva un antenato nell’esercito confederato, il soldato L.B. Walker Carter, nato nel 1832, che combatté nella battaglia di Gettysburg nel 1863, che riuscì a tornare a casa, pur morendo giovane nel 1974. Carter ha avuto diverse fortune morendo, se così si può dire, non solo quella di morire circondato dall’affetto dei suoi cari.
Carter se n’è andato in un momento storico in cui la sua eredità comincia a venire fortemente rivalutata. Non si parla solo del suo impegno nella post-presidenza: è noto che abbia condotto uno stile di vita frugale, che dal 1982 con le attività della sua fondazione no-profit Carter Center, con la quale ha contribuito a costruire case per gli americani a basso reddito e ha inviato osservatori alle elezioni di decine di Paesi dove era incerto il confine tra democrazia e Stato autoritario. Un impegno che gli è fruttato, anche per le volte in cui si è speso in prima persona per conto degli Stati Uniti, il Nobel per la Pace nel 2002.
Anche il suo sfortunato quadriennio presidenziale è stato oggetto di rivalutazioni. Sgombriamo però il campo da eventuali santificazioni postume: Carter è stato il prodotto del suo tempo e del luogo dov’è cresciuto, quel profondo Sud ex schiavista che nel 1924 aveva ancora un regime di rigida segregazione razziale. Non è un caso che, nonostante fosse fermamente contrario a quella pratica di governo, ancora nel 1970, quando si candidò alla carica di governatore della Georgia, fece un ampio uso di stereotipi razzisti, purtroppo necessari per vincere le elezioni.
Anche se, sin dalla sua inaugurazione, mise in chiaro che sotto di lui la segregazione razziale sarebbe stata finalmente superata, ben sedici anni dopo la sentenza della Corte Suprema “Brown v. Board of Education” che dichiarava incostituzionale la separazione tra bianchi e neri nei luoghi pubblici.
La presidenza, dicevamo. Ebbe una certa fortuna, inizialmente. Nel 1976 la saggezza convenzionale sulla fama e l’esperienza dei politici candidati alla presidenza era andata in pezzi, distrutta dallo scandalo del Watergate che portò Richard Nixon alle dimissioni: fu uno shock per l’opinione pubblica americana un presidente che mente apertamente alla nazione. Si sentì il bisogno di una faccia nuova: Carter fu la giusta congiunzione tra i conservatori del Sud, a cui comunque apparteneva come devoto aderente alla Chiesa Battista del Sud, e i progressisti del Nord, quel mix che serviva ai dem per superare la defunta coalizione del New Deal, distrutta dalla stagione dei diritti civili e dalla guerra del Vietnam che mise in ombra l’ampia stagione riformista di John Fitzgerald Kennedy e Lyndon Johnson.
Carter aveva un’agenda ambiziosa, che rovesciava il brutale realismo kissingeriano in favore di una strenua difesa dei diritti umani. Carter sostenne anche la dissidenza nei Paesi comunisti, incluso il gruppo cecoslovacco di Charta 77, dopo che per anni era stata abbandonata in nome della distensione. Lui, che a cavallo tra gli anni Quaranta e Cinquanta era parte di un ristrettissimo e scelto gruppo di ufficiali navali che avrebbe dovuto far parte dell’equipaggio dei sottomarini nucleari, aumentò le spese del quaranta per cento per il dipartimento della difesa. Non solo: cessò il sostegno militare alla dittatura di Pinochet in Cile e ai generali argentini.
Prese anche due decisioni che hanno impattato sul mondo di oggi. Attuò un’ampia deregulation del trasporto aereo che consentì la nascita delle compagnie low cost e tolse una vecchia norma risalente al Proibizionismo che impediva la produzione di birra artigianale, creando un fiorente settore economico dal nulla. Nel 1979 però fu colpito da una serie di sfortunati eventi: a partire dalla cacciata dello Shah dall’Iran il 17 gennaio che Carter aveva definito qualche mese prima quale “isola di stabilità” in una regione turbolenta, seguito dall’incidente alla centrale nucleare di Three Miles Island il 28 marzo del 1979, che portò a una parziale fusione del nocciolo, per concludere con l’invasione sovietica dell’Afghanistan del dicembre 1979.
Eppure, non mancò la diplomazia, culminata con la mediazione tra Israele e Egitto, coronata dal successo con l’accordo di Camp David siglato il 17 settembre 1978.
Per finire, all’epoca, non venne ricevuto per nulla bene il suo appello alla nazione il 15 luglio 1979, visto come eccessivamente pessimista. Eppure, in quel discorso, chiamato “Malaise Speech” affrontava i temi che più stanno a cuore al mondo progressista: il “centrista” Carter parlò di una crisi di fiducia tra cittadini e mondo politico, affrontò la necessità di utilizzare maggiormente le energie rinnovabili, ponendo anche un gruppo di pannelli solari sulla Casa Bianca, e chiese agli americani di rivedere il loro stile di vita eccessivamente votato al consumo.
Carter, come detto dal suo biografo Jonathan Alter, era semplicemente troppo avanti per quell’America che invece preferì affrontare una crisi inflazionistica affidandosi all’ex attore Ronald Reagan che rilanciò il liberismo economico con un messaggio sfacciatamente ottimista: alle elezioni del 1980 Carter ne uscì distrutto. Oggi, dopo la sua morte, la sua eredità dev’essere ridiscussa, superando lo stigma di una sconfitta elettorale frutto di una grande sfortuna.