L’ultimo ciakLe iconografie fotografiche dei decenni più affascinanti di Hollywood

Dall’archivio di LIFE, il settimanale fotografico più popolare al mondo (1936-1972), una carrellata di immagini (e parole) che ripercorrono i set più glamour e i momenti indimenticabili della Golden Age hollywoodiana, dove si contano “più stelle di quante ce ne siano in cielo”.

ALFRED HITCHCOCK. Philippe Halsman, Universal Studios,1963. © Philippe Halsman/Magnum Photos / AgenturFocus

Questo è un articolo del nuovo numero de Linkiesta Etc dedicato al tema della nostalgia, in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.

I libri sono uno spettacolo, nel senso più completo del termine. Sono due: LIFE. Hollywood il titolo, per entrambi. Sottotitoli: The Golden Age of Stars, Studios & Moguls-1936-1950 e Indipendents, Rebels & the New Hollywood- 1950s-1972. Taschen editore. Miniere fotografiche. Pagine da voltare come porte da spalancare. Volti noti e scene madri. Voragini, specchi. Basta un attimo: eccoli, eccoci. Ingaggiati, emozionati e presi da un viaggio con dietro e dentro la nostra storia, fotogramma per fotogramma. Provo a fare e dire, invitandovi a replicare, se avete un’età da datteri, da Novecento; se avete pochi anni e una curiosità da moltiplicare, infilandovi in un passato che comunque vi riguarda. Allora… C’è il cinema all’alba del grande cinema. Quando fu chiaro che lo schermo, enorme, avrebbe potuto stupire, con effetti specialissimi allora, quasi elementari visti ora.

BRIGITTE BARDOT. Ralph Crane, Mexico, 1965. TI Gotham, Inc. © Life Picture Collection, Meredith Operations Corporation

Kolossal, comunque, con i denari utili a fare in grande anche un dialogo minimo. Tutto talmente finto da sembrare vero. Strade di città, palazzi, viaggi in automobile – ah, le automobili, quelle là, smisurate, lamiere a smalto, cromature, deflettori, contachilometri come piatti da portata – vallate, Apache, canyon, treni in corsa con dentro una vittima, un assassino. Studi enormi, sforzi egizi, piramidi di cartone per dare aria, fiato, cornice ad ogni storia, a un eroe, una donna bellissima, in qualche modo magicamente somigliante a chi, quelle storie accompagnava, seduto in platea, sospeso in un rapimento emotivo senza precedenti. Presi tutti dall’emozione di far parte. Noi là, in un deserto, un terremoto, un duello. Foto da backstage, impensabili e invisibili, per fortuna allora, che solo adesso possono amplificare il fascino di uno sforzo artigianale e poi industriale.

C’è l’America per come è stata, divulgata. Cineprese e quinte, pellicole e fari, gli oggetti di un quotidiano che da noi apparve come lunare in un dopoguerra colmo anche di gratitudine da sbarco, liberazione. Tostapane e camicie; drive-in e giubbotti di pelle; investigatori, poliziotti padroni di un mondo sino a ieri selvaggio. Emigrati e mafia, imprenditoria faraonica nei mezzi, nella visione. Produttori leggendari, riservati, potentissimi; scrittori, sceneggiatori arruolati da imprese i cui nomi stanno scolpiti nella memoria di chiunque. Metro Goldwin, Paramount, Columbia…Raymond Chandler che batte a macchina scovando aggettivi da meraviglia, la punteggiatura da grande giornalismo, gangster e ragazze sin troppo sveglie trasferite dai tasti della Underwood a un piano sequenza. Abbastanza per provare ad imitare, noi qui, in questa provincia ancora un po’ dipendente perché il centro del mondo, quello vero, affascinante, davvero moderno, era quello, il loro, appena visto al cinematografo fumando come dannati.

DARRYL F. ZANUCK. Twentieth Century-Fox Studios, 1944.© Getty Images: Photo by Jerry Cooke

Ci sono le star. Prime, mai così luminose. Elizaberh Taylor e Marilyn Monroe ad aprire le danze. Gregory Peck e John Wayne padroni di casa. La fissa per i motori di Steve McQeen, l’eleganza permanente di Cary Grant, la leggerezza stupefacente di Fred Astaire, la bellezza da soggezione di Grace Kelly. Altri? James Stewart e Rita Hayworth; Greta Garbo e Marlon Brando…Tutti, chi vi pare. Qui ciascuno può incontrare il proprio mito. Che legge in una pausa, che si fa truccare in un camerino, che flirta, fuma, ammicca, sorride in una dimensione frizzata in permanenza tra finzione e realtà.

Persone che se la sono goduta, le cui sofferenze stanno fuori dal set, dall’obiettivo. Una casta non sempre consapevole di volare ovunque, nel mondo, insieme alle avventure, agli intrighi, alle love stories che vivevano per mestiere, per la durata della lavorazione. Non solo: vite vere mai del tutto private, immortalate per far scattare un altro vizio che questo cinema, il primo, grande e universale, ha scatenato. Gossip, pettegolezzi, Tradimenti, alcol, droghe. Verità scabrose, speculazioni, grandi bugie, ciascuno inchiodato dentro un film senza riguardi, senza fine. Roba da copertina. Infatti. LIFE come un’incoronazione, come una condanna. La carta del giornale, ancora, come vero megafono per andare oltre ogni trama, per dare corrispondenza, nelle case, alla curiosità. Una rivista attesa, le copie, a ruba, in un’epoca molto diversa da questa, dove toccava leggere per sapere, provare a capire, dove leggere promuoveva una curiosità, l’ispirazione.

GREGORY PECK. Allan Grant, Hollywood, 1956. TI Gotham, Inc. © Life Picture Collection, Meredith Operations Corporation

Ci sono i padroni del film. I registi. Presi da un’idea da trasformare in uno stile. Da un ideale difficilissimo da interpretare. Da un panorama complicatissimo da realizzare. Alfred Hitckcock e i suoi uccelli, i suoi coltelli; Billy Wilder e quel gusto da commedia, da ironia che ci fa sorridere ancora adesso; John Ford con la benda sull’occhio al pari di un anziano pirata, di Moshe Dayan nei nostri telegiornali; Charlie Chaplin non più Charlot, circondato da una grande famiglia ancora felice. Indicano, correggono, maltrattano, coccolano. Giovani uomini e belle signorine da trasformare in divi e divine, dunque pronti e pronte comunque ad assecondare una pretesa anche se assurda, a star dentro un personaggio anche se stretto, insopportabile, odioso. Buoni e cattivi; streghe e regine da proclamare secondo copione. La certezza di poter disporre, pretendere, per dare un colpo di coda ad una sceneggiatura già costosissima, fuori budget da mesi.

C’è la consuetudine da lavoro dentro un contesto fuori taglia, regole, realtà. Cameramen, assistenti, montatori, elettricisti, carpentieri, fonici, controfigure, sarte, truccatori, insomma un esercito di gente che si è trovata lì, magari per caso, imparando presto a mettere assieme un evento epocale. Ci sono foto di scena che ci ricordano ciò che abbiamo visto a cose fatte. Momenti. Immagini. Attimi. Creati dopo giorni e giorni di lavoro, ritocchi, rifacimenti, buona la prima, quasi mai. E poi, c’è altro. Nelle foto non si vede. C’è il nostro tempo volato via, insieme a loro. Una freschezza emanata e perduta che riguardava ogni attrice, ogni attore come ciascuno di noi.

HEDY LAMARR. Eliot Elisofon, Hollywood, 1942. © Harry Ransom Center, The University of Texas at Austin

Una gonna a pieghe appena sopra il ginocchio per camminare sul set, per correre verso l’estate; una giacca molle, bellissima vista dalla poltrona del cinema Splendor e poi cercata, invano, in un grande magazzino. Una giovinezza che stava nei corpi, braccia, il collo come una scultura, ciò che non si vedeva, guai a mostrare, dunque perfetto per sognare prima di addormentarsi in una stanza spoglia.

La frenesia dell’andare al cinema quando era quello il divertimento vero, magari unico, sotto Natale, dentro domeniche da riempire con un guizzo di fantasia. Il corteggiare come arte, imparata osservando Robert Redford o Audrey Hepburn, in una educazione da gesti piccoli, da rispetto, buone maniere, da trasgressioni minuscole trattate come enormità. Il sesso, un tabù da sgrossare scena dopo scena, azzardo dopo azzardo; la goliardia da piccoli mascalzoni, arroganti e dunque simpatici. Maschilismo fuori discussione, nei film, nel quotidiano; figure femminili che adesso manifesterebbero insofferenze, ribellioni. Guai, persino a parlarne, infatti stop.

THE RAZOR’S EDGE. Ralph Crane, Twentieth Century-Fox Studios, 1946. © Shutterstock / The Life Picture Collection

La sensazione che quel mondo, questa avventura che sta nei ricordi, nei modi, che è stata negli abiti, nei tic, nei vezzi, persino nei desideri e nelle aspirazioni, appartenga ad una cultura rafferma. Nelle foto non c’è la fine del film. La morte che tutto porta via. Persone celebri, protagonisti e comparse, per nome e cognome; consuetudini, amori, compagni, amici cari, oggetti da cantina quando va bene. Buio in sala. Sale deserte, trasformate in parcheggi, centri commerciali. Un’altra Hollywood. Ma no. Il rimpianto è solo nostro e non serve a nessuno. Chi ha vent’anni avrà altra memoria, una diversa costellazione. Avrà scansioni molto più veloci, una quantità infinitamente superiore di immagini, gesti, riferimenti, diversamente da ciò che abbiamo avuto, da ciò che ebbero i ragazzi e le ragazze di due secoli fa, dentro paesaggi silenti e quieti. Quando nessuno poteva immaginare che un piccolo attrezzo di legno, un ciack, avrebbe fatto comparire, in un solo istante, un angelo biondo nel suo paradiso.

Hollywood. Taschen 2024

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