Il dibattito più interessante che discenda dalle notizie della cronaca italiana di questi giorni non è quello sulla prole di Leonardo Caffo, condannato a quattro anni in primo grado. Veramente la figlia che ha avuto con la donna che è stato condannato per aver picchiato, veramente quella bambina si chiama Morgana? E, se è vero (non ci crederò mai), cosa ci dice questo della cultura italiana? E, se tutti dicono che è vero, come può questo dettaglio non essere il più interessante oggetto di dibattito del momento?
Perché, chi ce lo doveva dire, il più interessante dibattito del momento discende da “Belve”, un programma che nessuno di noi ha mai visto per intero ma sul quale tutti abbiamo moltissime opinioni. Discende dalla piazzata d’un ospite, maschio, e dal gelo con cui l’ha accolta la conduttrice, femmina.
Sei anni fa Rivista Studio mi chiese un ritratto di Carlo Freccero. Ricordo che mi divertii moltissimo a scriverlo perché scoprii che tutti, persino quelli che normalmente non ti avrebbero risposto al telefono perché terrorizzati di venire citati, non vedevano l’ora di parlar male del povero Freccero. Fu, quella, la prima (e praticamente unica) volta in cui sentii parlare di Teo Mammucari.
Mammucari infatti ha fatto tutta tv che io non ho mai visto, dal suo esordio appunto frecceriano, “Libero” (il programma del quale tutti, persino chi non l’ha mai visto, ricordano il dettaglio di Flavia Vento sotto il tavolo: oggi li manderebbero tutti al 41 bis e ci toccherebbe fare della Vento la Simone de Beauvoir che questo secolo può permettersi).
Ricopio dall’articolo d’allora la scena in cui Freccero vede la cassetta col numero zero di “Libero”: «Freccero vede tre minuti del nastro […] e lancia una bottiglietta d’acqua contro il muro urlando “In onda domani!”. Poi chiede di parlare col conduttore, che sicuramente sarà onorato che il direttore di Rai 2 lo chiami per complimentarsi. Teo Mammucari viene svegliato da una telefonata dell’autore, non capisce chi gli stiano passando, si ritrova nell’orecchio un invasato che gli urla: “Io sono schiacciato dalla tua potenza!”. Conclusi i tre minuti di freccerismo, il conduttore richiama l’autore: “Ma chi era quello?”».
Quando la settimana scorsa è uscita la notizia che Mammucari se n’era andato dopo pochi minuti di registrazione, ho fatto due telefonate. La prima è stata a un amico che di solito sa le cose, e che non sapeva niente: solo che il fonico l’aveva dovuto inseguire perché se ne stava andando senza levarsi il microfono. La seconda è stata a un amico che non sa mai niente, che ha sbuffato che non capiva la meraviglia: nella redazione del varietà “Le iene”, in cui Mammucari ha lavorato (tenace nel suo proposito di fare solo programmi che io non guardi), egli era considerato il meno sveglio del gruppo. Non esattamente come essere il più stolido di Bloomsbury, diciamo.
E quindi martedì il programma di Francesca Fagnani è andato in onda, ed è stato la solita macchia di Rorschach in cui ognuno vede quel che ha deciso di vederci. Intanto non erano poi così pochi i minuti in cui Mammucari diceva vado no resto non mi sento a mio agio no vabbè proviamo: quasi venti. “Belve” ha questa strana caratteristica di dilatare il tempo: l’intervista senza fuga dura in genere una quarantina di minuti, e io la percepisco della lunghezza di “Ben Hur”.
Poi Mammucari sembrava quella concorrente della Bonaccorti che dava la risposta al quiz telefonico prima che la domanda fosse stata fatta, o Adriano Pappalardo quella volta che urlava «Lisa» prima che gli fosse stato comunicato che la moglie era arrivata sull’isola sulla quale egli da famoso concorreva: ha iniziato a smaniare assai prima che ci fosse ragione per farlo.
Fagnani, una che non vorrei mai come nemica, ha sentito l’odore del sangue e ha deciso d’infierire, rinfacciandogli non so quante volte (percepite: quattrocento – la prima al quarantesimo secondo) che era stato lui a proporsi per il programma. Il che faceva sembrare strano il di lui (invero forzato) trasecolare perché lei dà del lei agli ospiti, perché declama pezzi d’interviste e chiede conto delle cose dette, e tutto ciò che in quel programma si fa da sempre.
Ogni intervista è un gioco delle parti, ogni intervista televisiva è ancora più gioco delle parti di quelle scritte, e ogni intervista della Fagnani è un giochissimo delle partissime: lei ti legge qualcosa, tu dici «ma io non l’ho detto», lei dice «eh, non vi ricordate mai», come fosse un’americana abituata ai virgolettati di Bob Woodward e non una romana che sa benissimo che uso creativo del virgolettato facciano i giornalisti locali.
Mammucari ha deciso di non stare al gioco delle parti. L’ha deciso prima? L’ha deciso durante? È ciclotimico? Ha pensato che lo si notava di più se faceva una piazzata? Ha deciso di scongiurare il rischio che sui social girassero più pezzettini dell’intervista a Valeria Bruni Tedeschi che della sua?
Non lo so, l’unica cosa che so è che, dopo che se n’era andato, non erano certi di poter trasmettere l’intervista abortita. No, non c’entra la liberatoria (parola che ormai tutti hanno imparato, convincendosi così tutti di sapere la tv), che era stata ovviamente firmata prima. C’entra l’agente di Mammucari, quel Lucio Presta con cui Francesca Fagnani ha consolidati rapporti: ha condotto una serata di uno dei Sanremo gestiti da Presta, e ha favorito l’incontro tra l’ufficiale giudiziario che doveva ottenere il dovuto per conto di Presta e l’intervistata di “Belve” Heather Parisi.
Ma poi, ops, la notizia è uscita, e Presta è un uomo di mondo e non avrebbe mai messo il veto alla messa in onda d’un pezzettino di tv della cui esistenza sapevano ormai proprio tutti. E poi, una cosa non mandata in onda è un’ombra su cui si può fantasticare, venti minuti di «me ne vado» sono, appunto, una macchia di Rorschach.
In molti hanno deciso di vederci la dinamica tra i sessi, che i retori più scarsi vedono sempre e solo quando quella in una posizione di debolezza è la donna. Anche a costo di mettercela a forza, nella posizione di debolezza che ti serve per elaborare il tuo penzierino, perché francamente tra la gelida Fagnani che dice impassibile che se il tapino (tapino sottinteso nel tono) non se la sente non c’è problema, e Mammucari che ci manca solo che lanci bottigliette contro il muro, beh, ci vuol della fantasia a vedere in lui la parte forte.
Tra l’altro a me la dinamica ha ricordato moltissimo quella d’un programma di celebrità in disarmo in cui Mammucari era concorrente e bisticciava sempre con una giurata. Ci sono molte cose che sono questione di tempismo, e una di queste è la prepotenza: chi picchia per primo picchia due volte, dicono quelli che parlano per frasi fatte. In quel programma lì, Mammucari aveva il pieno controllo della situazione, era stronzo, era efficace, aggrediva per primo, e la povera signora che aveva di fronte, abituata a essere lei quella che dice cattiverie ai concorrenti, pareva talmente sempre sull’orlo delle lacrime che a un certo punto a Mammucari fu ingiunto di scusarsi, per una battuta invero blandissima. Non è questione di uomini e donne: è che chi è abituato a darle non è abituato a prenderle.
Una delle cose su cui ha dato mostra d’innervosirsi Mammucari è stato il «lei» usato da Fagnani con ospiti ai quali dà chiaramente del tu un attimo prima e un attimo dopo la registrazione – una procedura che ho sempre trovato un po’ ridicola, ma che martedì si è dimostrata efficacissima. Più lui s’innervosiva, più lei lo rassicurava che lei dava del lei a tutti gli ospiti ma lui se preferiva poteva darle del tu, più il meccanismo divorava il povero M (M, il mostro di Rai2).
A un certo punto lei gli dice «se non hai visto il programma, non so perché m’hai chiesto di venire» e a me viene in mente Simone de Beauvoir che dice che lei e Sartre si danno del lei così ogni tanto accade di darsi del tu ed è delizioso (è Mammucari l’esistenzialismo che possiamo permetterci? La Vento cederà il ruolo di de Beauvoir alla Fagnani? È “Belve” il nuovo Café Flore? È dunque questo il declino delle élite?).
Comunque, non so se l’erede Caffo si chiami Morgana – se avete la mia età: quella di Dylan Dog; se siete giovani: quella di certi podcast, di certi libri – ma da martedì, per merito di Francesca Fagnani, so che, anche se lo pronunciamo tutti con due «c», «Mammucari» si scrive con una. Tutto avrei previsto accadesse, al pubblico della Fagnani, tranne che di ritrovarsela maestra di dizione. Peccato che quella del declino delle élite me la sono già giocata.