La macumba entra nel vocabolario politico italiano. Grazie a Giorgia Meloni. La macumba, secondo la premier, è l’attività principale dell’opposizione, impegnata a elevare riti propiziatori contro la stessa Meloni, autoidentificatasi con l’Italia. Dunque, ricapitolando, l’opposizione è anti meloniana nella stessa misura in cui è anti italiana e per ostacolare la premier e la Nazione ricorre alla macumba affinché vada tutto male e anzi, siccome la cosa non sta funzionando, deve «fare un corso», consiglia Giorgia, per imparare i riti voodoo.
È davvero incredibile come questa leader passi nel giro di pochi secondi da normali ragionamenti politici a insolentire chi non è d’accordo con lei. È il segno di una fragilità di carattere non corretta dalla pur lunga esperienza politica, e meno che mai dal ruolo istituzionale che ricopre e che imporrebbe ben altra postura: è un tratto umano, certo, che poi si incastra con una cattiveria figlia della rivalsa umana e politica.
Lei perde la brocca appena la si critica, o quando si sente soggettivamente criticata, questo si vede bene con i giornalisti, che infatti lei evita (a parte gli amici), tanto è vero che fa una conferenza stampa l’anno, quella di fine anno, perché è un appuntamento tradizionale che non può saltare. Lo si vede ogni volta in Parlamento, dove abbiamo due Meloni: una prima, istituzionale, con i fogli preparati dagli uffici, e una seconda, nella replica, dove diventa improvvisamente la segretaria del Msi-An-FdI e Montecitorio diventa la ridotta di Atreju con lei che si fa uscire qualche vena dal collo mentre si scaglia contro il piddino di turno (ieri è toccato al malcapitato Peppe Provenzano) per la gioia dei seguaci plaudenti e felici.
La cosa sta diventando imbarazzante e un tantino stucchevole. E soprattutto diseducativa proprio per i suoi adepti, che infatti non ragionano pensando che il dissenso sia il sale della democrazia, semmai un inammissibile affronto al governo e alla Nazione, dunque ritenendosi, gli adepti (a partire dai giornalisti amici), liberi e anzi obbligati dalla storia a saltare addosso agli interlocutori, siano essi uno scrittore critico o un economista non allineato o un giornalista di sinistra.
Lo ha spiegato Mario Sechi, ex portavoce-direttore-conduttore di un programma Rai che chiunque parli del governo è automaticamente «un politico», e quindi va trattato come un oppositore, senza pietà. A tutto ciò, e qui vorremmo davvero sbagliare, si sta sempre più aggiungendo un tocco esagerato di enfasi di partito sino a sfiorare le vette auliche del tempo che fu: «Siate concentrati, ambiziosi, coraggiosi: non tornerà un tempo come questo. L’occasione di fare la storia è qui e ora, e non permette passi incerti perché ha bisogno di corse audaci», ha detto Meloni ad Atreju. E insomma un po’ di retorica ci sta, ma qui siamo nella zona pericolosa dell’esaltazione, dell’autoesaltazione, complici anche le laudi elevate anche dai media stranieri.
Così, tra consenso reale e mania di grandezza, i meloniani stanno intossicando il clima e impedendo il confronto, che in questo modo fa presto a degenerare in scontro. E la principale responsabile è lei, Giorgia Meloni, perché è da lei che promana il soffio persino violento della polemica senza esclusione di colpi, compresa la via giudiziaria intrapresa dal ministro Giuseppe Valditara contro uno scrittore, Nicola Lagioia, e un giornalista, Paolo Berizzi.
«Mi insultano e non devo replicare?», chiede retoricamente Meloni, dando la stura ai seguaci di scatenarsi a loro volta. Risponderemmo di no, non deve replicare, se non è proprio strettamente necessario. Chi governa deve essere pronto alle critiche, anche le più urticanti, e lavorare, semmai spiegando con civiltà quello che sta facendo. Vedremo presto, il 9 gennaio, nella conferenza stampa di inizio anno più che di fine anno, se Giorgia Meloni riuscirà per una volta a non perdere le staffe. Un po’ di livello, un po’ di stile: la Nazione sarebbe grata.