La città d’oroQuando l’isola di Sumatra era il Klondike del lontano oriente

All’inizio del Novecento, l’Asia diventa l’epicentro di cambiamenti che minacciano gli imperi europei. Tim Harper, in ”Asia ribelle” (Add editore), esplora le storie dei personaggi che hanno contribuito a trasformare il continente in un palcoscenico di fermento politico e sociale

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Nel dicembre 1919 Ibrahim gelar Datoek Tan Malaka arrivò a Medan, la città più importante dell’isola di Sumatra. Era un avamposto coloniale dell’antico sultanato malese di Deli, dove dagli inizi del Novecento, quasi da un giorno all’altro, le antiche foreste pluviali della Sumatra orientale erano diventate come il Klondike durante la febbre dell’oro. Deforestazione, ferrovie, pontili e industrie per l’esportazione avevano creato nelle Indie uno Stato nello Stato, gestito come un feudo dal capitale internazionale. Padroni della zona erano non solo i coltivatori di tabacco olandesi, che reclamavano il loro status di «pionieri», ma anche le aziende americane che avevano investito nella gomma, il conglomerato franco-belga socfin proprietario delle piantagioni di palme da olio, e gli inglesi che coltivavano il tè nelle loro tenute.

La regione attirò un’enorme quantità di forza lavoro, principalmente giovani da Java: non erano bloccati in un rigido sistema di servitù debitoria, erano uomini e donne in libero movimento. Solo nel 1911 ci furono cinquantamila arrivi. Nel 1920, al picco del reclutamento di lavoratori, c’erano circa duecentocinquantamila «coolies a contratto» a Deli, più altri cinquantamila lavoratori occasionali, di cui quasi un terzo donne.

Tutti quanti – mercanti, operai e coltivatori – avevano i loro sogni di ricchezza, e sperimentarono il capitalismo su una scala e in una forma concentrata che si era vista in pochi altri luoghi fuori dall’Asia. Senembah Maatschappij, la piantagione di tabacco dove Ibrahim avrebbe trovato lavoro come insegnante, era una delle tenute più antiche, con una superficie di oltre trentaseimila ettari. Da lì Ibrahim poté vedere che Deli era a tutti gli effetti «una terra dorata, un paradiso per la classe dei capitalisti, ma anche una terra di sudore, lacrime e morte, un inferno per il proletariato», capace di trasformare gli olandesi, «il popolo più gentile della terra», in un «bufalo che carica e travolge i nemici».

«C’era qualcosa che Deli non aveva?». Nella testa degli olandesi, Medan, con i suoi centri per la ricerca scientifica e la sua architettura art déco tropicale, era il fiore all’occhiello della politica etica. In un ambiente spietato, le imprese che gestivano le piantagioni di Deli erano considerate un modello di assistenza sanitaria. A Senembah Maatschappij, che si vantava di essere progressista, il tasso di mortalità medio annuo tra i lavoratori era stato di settantuno ogni mille tra il 1890 e il 1894, e di sessantatré ogni mille tra il 1895 e il 1899, in un’epoca in cui vi lavorava il cinque per cento di tutta la forza lavoro impiegata nelle piantagioni di Sumatra. Dopo il 1905 il tasso di mortalità scese a meno di dieci ogni mille, ma questi dati non facevano che sottolineare i punti oscuri della politica etica. 

I tassi di mortalità erano artificialmente bassi poiché la popolazione di lavoratori migranti era giovane e piuttosto sana; gli anziani e i malati non si spostavano. Lo Stato delle Indie produceva voluminose raccolte di dati, e alcuni dei funzionari responsabili iniziarono a esprimere l’idea che la servitù debitoria fosse «una moderna forma di schiavitù» e che Deli, con la sua coercizione, le restrizioni sui movimenti e l’obbligo di residenza, fosse diventata «una prigione a cielo aperto». 

Le statistiche inoltre nascondevano il cuore nero del «sistema Deli»: la violenza sessuale sulle donne che lavoravano nelle fabbriche di tabacco. Le famiglie, scrisse Ibrahim, potevano «perdere la moglie o la figlia in qualunque momento se il capo bianco si incapricciava di loro». Lo sfruttamento era endemico, tra livelli di prostituzione altissimi e instabili «matrimoni tra coolies». «Moralità, eleganza? Oh, santo cielo. Gioco d’azzardo, adulterio, sono il carburante dei più profondi abissi dell’umanità […] se solo funzionassero! Eccolo il vostro purissimo capitalismo».

Alla fine della Grande guerra, gli europei furono colti dal panico morale per il livello di violenza nelle piantagioni, che li metteva continuamente in pericolo e li esponeva agli scandali: le quotidiane aggressioni da parte dei proprietari, le punizioni corporali con la frusta, le percosse durante l’appello all’alba. Temendo il peggio, serrarono i ranghi. Un decreto del 1915 rese pressoché impossibile qualunque forma di protesta legale o di organizzazione collettiva; le «minacce verbali» e l’«atteggiamento aggressivo» diventarono punibili fino a tre anni di carcere.

Queste misure riuscirono a tenere lontane dalle piantagioni di Sumatra le potenti organizzazioni sindacali che erano sorte a Java. Tuttavia, le forme quotidiane di resistenza – sciatterie e negligenze – erano una continua prova di forza tra lavoratori e supervisori asiatici. Tra il 1917 e il 1924 furono segnalate tra le ottomila e le tredicimila infrazioni ogni anno, anche se i funzionari negavano che avessero un carattere «politico». Allo stesso tempo, nel 1920, i lavoratori delle ferrovie di Medan scioperarono per la prima volta; la protesta fu soffocata in tempi rapidi e i datori di lavoro si rifiutarono di ammettere che alla base c’erano mere richieste economiche.

Ibrahim arrivò in un momento di crescente paranoia sul fatto che nella forza lavoro si fossero infiltrati agitatori provenienti da Java e non solo. Il suo ruolo di insegnante era anomalo. Dopo sei anni nei Paesi Bassi, gli olandesi non lo intimidivano più. La sede centrale della compagnia aveva istruito i dipendenti locali «a trattare Tan Malaka come un europeo», ma lui era disgustato dalla loro compagnia, dalla loro mancanza di interesse per il popolo delle Indie, dall’ossessione per «stipendi, bonus e congedi. Nient’altro». In seguito si sarebbe scagliato contro i «babbei olandesi dalla zucca vuota […] seduti con le loro grosse stecche nella sala del biliardo davanti ai boccali di birra e al whisky».

Nei difficili anni del dopoguerra serpeggiavano tensioni continue tra gli europei occupati e i «bianchi poveri», che tiravano avanti a credito negli alberghi giapponesi cercando di mantenere il livello di vita richiesto dal prestigio bianco. Gli ci era voluto del tempo, confessò Ibrahim in una lettera all’amico Dick van Wijngaarden nei Paesi Bassi, per trovare «qualche spirito affine», uno dei quali era il segretario di un sindacato olandese. Ma non era facile farsi accettare. Ibrahim alloggiava a oltre venti chilometri da Medan, e il suo debito ammontava ancora a circa cinquemila fiorini. Il consiglio che gli aveva dato il suo finanziatore, il signor Horensma, al momento di salutarsi era stato: «Lavora, studia e risparmia!», e gli scriveva con regolarità per sapere a che punto era con le rate per ripagare quanto gli doveva. 

Per i primi sei mesi del 1920 Ibrahim mandò tra i sessanta e gli ottanta fiorini al mese su uno stipendio di trecentocinquanta. Aveva lavorato, studiato e risparmiato, scrisse a Horensma, ma doveva mantenere la famiglia, pagare le tasse e le assicurazioni. Aveva ancora in progetto di andare a Java per migliorare la propria istruzione e dipendeva dalla buona volontà degli europei per farsi strada nella vita.

Poco dopo il suo arrivo, Ibrahim scrisse di essere «uno spettatore in attesa». L’esperienza a Deli lo convinse in fretta, come scrisse a Dick van Wijngaarden nel febbraio 1920, che «viviamo in un tempo in cui si scontrano visioni del mondo differenti». Ibrahim non si era fatto ingannare dall’imperialismo etico: gli olandesi non erano interessati a sviluppare a Sumatra forme più elevate di capitalismo, né tantomeno a condividerne i frutti. L’ingiustizia fondativa del sistema consisteva nel fatto di basarsi sull’«erudizione» e l’esperienza asiatica. Lavorando per appianare i suoi debiti e quelli della sua famiglia, Ibrahim imparò a condividere la disperazione dei «più oppressi, sfruttati e umiliati della mia nazione».

Considerava il lavoro alla piantagione una truffa, aveva l’impressione di vivere in un «villaggio Potëmkin». Ma insegnando in malese, la lingua franca della forza lavoro malese e javanese, sfruttò la propria esperienza per riflettere sul modello russo dell’elevazione delle classi popolari. Presto cominciò a scrivere per i giornali. Il ricordo dei sei anni trascorsi nei Paesi Bassi era sempre vivo, ma le lettere al suo «migliore amico» Dick van Wijngaarden assunsero toni sempre più infervorati: Ibrahim lo istruiva sui mali del capitalismo, esponendogli la sua interpretazione intransigente di Marx e la necessità di una «dittatura del proletariato». Il tono dei loro scambi restò intimo, ma ideologicamente erano sempre più distanti. 

Lo stesso schema si stava ripetendo con tutti gli altri amici: «E non mi succedeva solo […] con i bianchi di dover fare diretta esperienza del dipanarsi di questa tragedia della vita», avrebbe scritto in seguito usando il termine inglese tragedy, «ovvero di come si possa essere amici di qualcuno nella buona e nella cattiva sorte, di come si possa mangiare e bere insieme, pur trovandosi sui lati opposti della barricata».

«È impossibile continuare a parlare di riforme», annunciò a Dick il 19 maggio 1920. In quell’epoca di transizione, solo la Rivoluzione russa offriva una strada verso il progresso. Dopo essere stato in contatto con il «capitalismo purissimo» a Sumatra, Ibrahim aveva ben chiaro che le forme che assumeva erano universali: 

«Dovreste guardarvi intorno, a Java, nell’India britannica e in Egitto, dove milioni di persone sono sacrificate al prezzo della loro anima. Sì, le vite di milioni di persone. A dir poco. Per non parlare del lavoro minorile, delle donne, della distruzione della vita familiare. Per non parlare della guerra, dell’imperialismo. E tutto questo per il plusvalore, cioè per il sangue dei lavoratori».

Nelle Indie la lotta non aveva ancora assunto un aspetto di classe. Era ancora incerta su «quale direzione prendere. Ma quando capirà che l’intero mondo capitalista è unito contro i colonizzati e il proletariato, allora spalancherà le braccia al resto del “proletariato mondiale”». Mentre Ibrahim osservava e aspettava, nella vicina Java l’ostilità tra l’ala rossa, socialista, e quella verde, islamica, del Sarekat Islam portò a una spaccatura decisiva. Anche l’Associazione socialdemocratica delle Indie era divisa.

Il suo primo principale ispiratore, Asser Baars, tornò a Java nel marzo del 1920 invocando un cambio di nome del partito per rompere con i «falsi socialismi» europei. A un incontro a Semarang, il 23 maggio 1920 – una riunione di basso profilo a causa della stretta sorveglianza della polizia – fu adottato un nuovo nome: Perserikatan Komunis di India (pki, Associazione comunista delle Indie). Con questo cambiamento si voleva riconoscere la leadership del Comintern e riaffermare l’universalità della sua lotta. Un numero sempre più basso di membri olandesi sosteneva che le Indie non erano pronte per una mossa di questo tipo perché prive della necessaria «sottigliezza» ideologica. Il tempo dei brontolii era finito.

Semaoen e Darsono furono proclamati rispettivamente segretario e vicesegretario del Partai komunis Indonesia (Pki, Partito comunista di Indonesia). Baars annunciò che non avrebbe chiesto per sé alcuna carica importante. Ai loro occhi, il cambio di nome non era un cambio di direzione: Semaoen e Darsono erano impegnati nella lotta di massa sin dalla fine della guerra. «È da tanto che noi siamo comunisti», avrebbe commentato Piet Bergsma, uno dei loro ultimi sostenitori olandesi, autista di tram e sindacalista che lottava nelle Indie da quindici anni e aveva sposato una donna del posto. 

Fu il primo partito a definirsi «comunista» in Asia. Al momento della sua fondazione, in importanti Paesi industriali e imperiali come Francia, Italia, e addirittura Gran Bretagna, non c’erano partiti comunisti ufficialmente attivi. Era facile, nelle città poliglotte di Java, schierarsi a favore della «nazione umana mondiale» di cui parlava Mas Marco Kartodikromo. Ai margini delle grandi foreste di Sumatra era possibile immaginare un futuro, nelle parole di Ibrahim, in cui sarebbero stati i lavoratori a condurre il gioco «e la gente userà le forze della natura a beneficio di tutti».

Ma ora c’era il difficile compito di tracciare nuove strade e costruire nuove alleanze, ancora più difficile sotto gli sguardi dei Jean e degli Édouard e, se per questo, anche dei benintenzionati come Horensma. Tutto sembrava indicare la necessità della lotta clandestina. A Mosca, dove moltissimi guardavano in direzione dell’Asia, uomini e donne che talvolta avevano trascorso anche dieci o quindici anni in clandestinità stavano costruendo un nuovo ordine.

Nel 1919, descrivendo la fondazione della Terza Internazionale, Trockij evocò ancora una volta la «talpa» di Hegel, Marx e Bakunin. Ecco le sue parole:
«Nelle aule dei tribunali dove ancora vagano gli stanchi fantasmi delle leggi criminali dei codici zaristi ora sono riuniti i delegati della Terza Internazionale. Di certo, la talpa della storia non si è risparmiata scavando sotto le mura del Cremlino».

Per chi aveva trascorso buona parte della propria vita nel sottosuolo, quella della «talpa» non era una metafora. Era una realtà che si presentava con varie sfaccettature, forse contraddittorie, all’interno del nuovo regime sovietico: restava un ideale di libertà e impegno, ma anche un modello di ferrea disciplina rivoluzionaria. Nei peggiori momenti della guerra civile dell’ottobre 1919, Lenin avrebbe detto: «Ebbene, riprenderemo l’azione clandestina!». I veterani dell’esilio furono messi al lavoro. Uno degli storici compagni della clandestinità di Lenin era Michail Borodin. 

Nell’agosto 1918 aveva abbandonato Chicago, lasciando lì moglie e figli, e raggiunto Mosca via Oslo. Aveva lavorato come agente in Scandinavia, e grazie all’immacolato pedigree rivoluzionario e alla sua esperienza del mondo aveva avuto un ruolo importante nel dietro le quinte del I congresso dell’Internazionale. Poi se n’era andato in silenzio, nell’aprile 1919, con un passaporto messicano e, si sussurrava, con i gioielli dei Romanov.


Tratto da “Asia ribelle” (Add editore) di Tim Harper, pp. 383, 45,00€

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