A proportional responseLa lezione di Aaron Sorkin per evitare di dire altre castronerie sul caso-Sala

Il creatore di “The West Wing” aveva già capito venticinque anni fa che la minaccia di plateali ritorsioni non funziona come deterrente per le autocrazie. E noi siamo qui, in balìa dei capricci degli ayatollah, senza sapere cosa fare per risolvere questo problema, e con un pienone di suggeritori imbecilli nel mondo virtuale

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«Era successo qualcosa, non ricordo cosa. Gheddafi aveva bombardato una delle nostre basi militari, credo, ma potrei sbagliarmi di tre paesi e due dittatori. Comunque. Era all’inizio del primo mandato di Clinton, erano riuniti coi consiglieri per la sicurezza nazionale, stavano discutendo le varie opzioni di risposta proporzionata, e Clinton chiese “Quali sono le virtù d’una risposta proporzionata?”, e la domanda mi piacque molto. Tanto che la feci formulare a due diversi attori, Michael Douglas e Martin Sheen».

Lo scrive Aaron Sorkin nel primo volume di sceneggiature di “The West Wing”, introducendo appunto “A proportional response”, la terza puntata della prima stagione, quella in cui Martin Sheen (che era il presidente in “The West Wing”: Michael Douglas era il presidente in un film scritto sempre da Sorkin qualche anno prima) sbotta perché i cattivi mediorientali hanno abbattuto un aereo militare su cui viaggiava anche il suo medico, Morris Tolliver.

Mi è tornata in mente, la puntata, quando l’altro giorno qualcuno mi ha detto che il caso-Sala ci dice che il mondo è andato a rotoli: una volta non ci saremmo fatti imprigionare un giornalista da un paese che non conta economicamente un cazzo come l’Iran, una volta avremmo mandato qualcuno a tagliargli la gola, a questi trogloditi che osavano sfidare l’occidente pasciuto.

«Lo sapevi che duemila anni fa un cittadino romano poteva attraversare il mondo senza alcuna paura di venire disturbato? Poteva attraversare il pianeta illeso, protetto solo dalle parole “Civis romanus sum”, sono un cittadino di Roma, per quanto grande era la ritorsione che tutti sapevano per certo sarebbe arrivata da Roma, se anche uno solo dei suoi cittadini fosse stato in pericolo. Dov’era la protezione di Morris, o di chiunque altro su quell’aereo? Dov’è la ritorsione per le loro famiglie, e dove il monito al resto del mondo che gli americani devono poter attraversare il pianeta illesi, altrimenti il pugno di ferro della più potente forza militare nella storia dell’umanità si abbatterà sulle vostre case? In altre parole, Leo, cosa diavolo stiamo facendo?».

A proportional response” va in onda venticinque anni e tre mesi fa, è l’ottobre del 1999, il muro di Berlino è caduto da dieci anni, l’America è l’ultima superpotenza rimasta, eppure già allora c’è un prima, c’è una via Gluck o una valle ancora verde di duemila anni prima, alla quale guardare come il tempo in cui nessuno avrebbe osato sfidarci altrimenti guai a lui.

Leo è il capo dello staff del presidente, nonché il suo migliore amico, nonché quello pagato per farlo ragionare. Venticinque anni e tre mesi fa, gli risponde come probabilmente risponderebbe anche oggi uno pagato per far ragionare il presidente degli Stati Uniti d’America: «Ci comportiamo come deve comportarsi una superpotenza». Figurati quando non sei una superpotenza.

Mi è tornata in mente, quella puntata, anche ieri aprendo i social. Per la verità in questi giorni mi vengono in mente molte cose – e quasi tutte non si possono scrivere in pubblico, almeno per ora – quando apro i social e vedo le reazioni dell’opinione pubblica a Cecilia Sala chiusa in un carcere del terzo mondo. Mi perdonerete se, censurando ciò che direi con parole mie agli imbecilli d’ogni schieramento, lascio la parola ad Aaron Sorkin e a dei personaggi di finzione. Per rispondere, anche, al tizio che giovedì scriveva «Io inizierei dando all’iraniano lo stesso trattamento di cortesia offerto a Cecilia Sala. Isolamento, dormire a terra, luce H24, senza alcun genere di conforto. Così magari capiscono»: siamo sicuri che, in quel terzo mondo che è una teocrazia mediorientale, si aspettino «generi di conforto» (qualunque cosa significhi) nelle carceri?

A un certo punto, più avanti nella stessa conversazione sul fatto che non esiste più l’impero romano e neanche le superpotenze garantiscono più l’intoccabilità dei loro cittadini, Leo dà del cretino al presidente, sebbene in maniera più contenuta di quelle con cui si può dare del cretino a qualcuno sui social (a qualcuno che scrive «H24», impiegando poi certamente i secondi risparmiati non scrivendo per esteso «ventiquattr’ore» a studiare per il Nobel).

«Sei ottuso quanto quelli che pensano che la pena capitale sia un deterrente per i narcotrafficanti. Come se i narcotrafficanti non vivessero le loro vite, un giorno dopo l’altro, avendo messo in conto la possibilità che li aspetti un’esecuzione. E le loro esecuzioni sono assai meno cerimoniose delle nostre, e tendono ad avvenire senza i fastidi e i costi di un giusto processo».

Sorkin racconta che ad aiutarlo a capire quale fosse la risposta giusta alla domanda sulle virtù d’una risposta proporzionata era stato Pat Caddell, uno dei consulenti che aveva per “The West Wing”, uno che «da molto giovane era stato un übersondaggista per Jimmy Carter».

Caddel è morto cinque anni fa, molto più giovane dell’ex presidente che una settimana fa è morto centenario, e al quale aveva raccomandato di posizionarsi come antipolitico e di prendere decisioni che simbolicamente lo differenziassero dall’establishment. Era il 1976, lo dico per quelli convinti che l’antipolitica l’abbiano inventata nei decenni successivi Silvio Berlusconi o Beppe Grillo o addirittura Donald Trump. L’accusa che facevano a Caddell (che oltre di Carter è stato consigliere di praticamente chiunque, pure di Trump nel 2016) era quella di avere chiarissimo come ci si fa eleggere, ma di non avere alcuna idea (né interesse a farsene una) circa come si governasse: non mi pare un problema solo di Caddell e di Carter, diciamo.

Comunque, quando il presidente scritto da Sorkin chiede ai suoi consiglieri quale sia la virtù d’una risposta proporzionata, la risposta che gli dà l’ammiraglio Fitzwallace è: «Non è virtuosa: è tutto quel che possiamo fare». John Amos, che interpretava Fitz, è morto a ottobre, e quindi io arrivo alla fine di questo articolo con la convinzione che tutti quelli che dovevano darci le risposte siano morti, e noi vivi siamo qui, in balìa dei capricci degli ayatollah, ma senza impero romano, senza superpotenze, senza sapere cosa fare per risolvere le cose nel mondo reale, e con un pienone di suggeritori imbecilli nel mondo virtuale.

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