La perfezione della mandorlaCome nascono i torroni unici di Scaldaferro

Nel Veneziano, il torronificio Scaldaferro racconta di ingredienti selezionati con precisione maniacale, ma che costano troppo per tenere il prezzo di mercato

La lavorazione del mandorlato (credits Torronificio Scaldaferro)
La lavorazione del mandorlato (credits Torronificio Scaldaferro)

Antistorico, antieconomico e quasi eroico. È il lavoro che Pietro Scaldaferro compie quotidianamente durante la stagione di produzione (da ottobre a febbraio) per regalare agli appassionati di dolcezze uniche i suoi mandorlati fatti di ingredienti unici e di una tecnica non irripetibile, ma talmente artigianale da non esser conveniente da copiare.

Come nasce allora l’assoluta friabilità, la dolcezza preziosa, la commistione incredibile di sapori che si scoprono nel mandorlato Scaldaferro? Abbiamo seguito l’intera produzione per raccontarvelo.

La stagionalità e la perfezione assoluta delle mandorle
La stagionalità non è dettata dal mercato, ma dalla natura. «Mi hanno definito talebano – ironizza Pietro – ma inevitabilmente noi iniziamo nel momento in cui arrivano i mieli, la frutta secca e soprattutto le mandorle, che sono il vero spartiacque. Io parto tra la prima e la quarta settimana di settembre, in funzione di quando ho il nuovo raccolto di miele e di mandorle, nocciole e pistacchi (mentre per le noci dobbiamo ricorrere al raccolto precedente). E tutto viene fatto con l’esperienza umana».

Tutto davvero. C’è la selezione delle mandorle, che devono esser controllate anche se arrivano già pelate e calibrate per esser tutte uguali e perfette. Estetica e marketing? Assolutamente no. «La prima grande differenza del nostro processo di lavoro è la tostatura a caldo delle mandorle – spiega Scaldaferro – che non fa quasi nessuno perché si arriva a 165 gradi per 20/25 minuti e deve esser controllata a vista. Solo che questo richiede mandorle tutte uguali (altrimenti alcune si rovinerebbero) che, una volta subito lo shock termico, producono l’olio essenziale che poi andrà a invadere la pasta del torrone».

Così ogni batch di mandorle (scartando quelle amare, riconoscibili ai raggi X) viene passato a vista, liberato da ogni ombra di farina, tostato e conservato a temperatura per esser velocemente versato nell’impasto di albume, miele e zucchero senza che questo smonti. E se non fosse già complicato il processo, ci si mette anche «un enorme decadimento di qualità della mandorla italiana – rimarca Scaldaferro – perché da un lato c’è la desertificazione del sud Italia, mentre le piante hanno bisogno di cinque litri d’acqua per chilo prodotto e dunque di irrigazione costante, ma soprattutto perché non ci sono più i contadini che le coltivano. Quasi tutti diventano infatti rivenditori di mandorle spagnole o turche. Abbiamo perso dei cultivar straordinari».

In ogni caso, dopo la selezione ai raggi X e la calibratura, quel che arriva a Dolo è il fiore del fiore del fiore… «per cui il nostro povero fornitore sceglie solo per noi quel 15 per cento di mandorle perfette e passa agli altri clienti il resto del raccolto, le farine all’industria e quelle rotte ad altri produttori che non hanno le nostre esigenze». E non è difficile immaginare che questa iper-selezione non sia esattamente a buon mercato.

Le pentole di rame per la lavorazione del mandorlato (credits Torronificio Scaldaferro)
Le pentole di rame per la lavorazione del mandorlato (credits Torronificio Scaldaferro)

Le mandorle così “coccolate” approdano dunque in piccole caldaie di rame, tutte diverse (anche nella cottura) perché fatte a mano, rimaste uguali dai primi decenni del Novecento salvo l’alimentazione a legna e le pale meccaniche che hanno sostituito le braccia umane. Nelle pentole la miscela di albume e miele viene cotta a bagnomaria (80/90 gradi) per quasi nove ore. «All’inizio la macchina va velocissima – spiega magistralmente l’artista del torrone – facendo montare la massa con molta aria, dopodiché rallenta i giri fino al processo di asciugatura». Sì, perché in quelle nove ore viene tolta quasi tutta l’acqua che c’è nell’albume e del miele (nell’albume fresco è al 90 per cento), per arrivare a un prodotto secco col 4 per cento di acqua. «Dopodiché arrivano le mandorle o gli altri frutti secchi – conclude – infine lo togliamo con una pala, lo mettiamo su un grande tavolo e il mandorlato viene posato a mano fiocco per fiocco, per poi esser confezionato».

Ça va sans dire, dato che ogni pentola richiede una cura spropositata vengono caricate con una scansione oraria. «Iniziamo con la prima cotta alle 3, poi alle 4 e via fino alle 9 quando parte l’ultima – precisa Scaldaferro – con una sola cotta per ogni caldaia. Dunque la produzione è per forza limitata. Siamo degli artigiani oltre ogni immaginazione, per questo dico che è antistorico e antieconomico, perché le operazioni richiedono una mole enorme di lavoro a mano».

Ecco che il vero problema, enorme, è il personale. «Abbiamo pochissimo ricambio – chiosa – nonostante lo stipendio sia molto buono. Una volta c’erano tanti giovani che avevano voglia di imparare e si fermavano con noi. Adesso invece, quando vedono che è un lavoro faticoso, mollano immediatamente. Perché è bello, manipoli materie prime di eccellenza e lavori pure con la pasticceria, ma devi stare in piedi molte ore e devi usare le mani, una cosa che sembra diventata imbarazzante».

In effetti, la meccanizzazione ha consentito di sostituire chi alimentava le caldaie e girava il bastone, ma dopo quattro generazioni questa straordinaria fucina di gioielli dolci ha ancora bisogno di molta manualità. Se si pensa a quanto può costare una birra artigianale o una bottiglia di vino, probabilmente i prezzi (alti) di Scaldaferro potrebbero pure raddoppiare.

La squadra di lavoro di Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)
La squadra di lavoro di Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)

Abbinamenti gastronomici tutto l’anno
Qual è allora il risultato di tanto lavoro? Ci sono le limited edition, che Scaldaferro abbina ad alcuni “archetipi umani” (come abbiamo raccontato nella puntata precedente), e poi ci sono abbinamenti pazzeschi. «Perché noi facciamo anche il torrone gastronomico, quindi abbiniamo formaggi straordinari ai singoli torroni, per ricontestualizzare il concetto di un torrone che non si mangia solo a Natale. Sto cercando di farlo capire, ma siamo a Dolo ed è difficile. Se fossimo a Milano sarebbe un’altra cosa ed è un peccato limitare un prodotto che è un dolce senza tempo».

Quindi un torrone allo zafferano si abbina con il Piacentino ennese, un caprino o una robiola di Roccaverano con il torrone pistacchi e miele di coriandolo, un erborinato francese con il nuovo mandorlato al miele di timo selvatico dei monti Iblei, zenzero e bacche di Adaman.

Uno spunto per la ristorazione di eccellenza? Sì, ma mentre oggi nei menu si trovano indicati gli allevatori che “firmano” la carne o i casari che producono un formaggio, «ma il dolce è dolce e dunque se va bene indicano “torrone di tradizione veneta”. Nel dolce siamo ancora estremamente ignoranti. Se io spiego in Inghilterra i mieli che utilizzo sono sorpresi, se gli fai assaggiare il miele sbalordiscono perché non lo conoscono e dicono: “hanno gusti diversi”. Ma chi sa come è fatto il miele? Siamo all’ABC, tutti sanno di cucina ma nessuno sa nulla. Vedo che manca la cultura, manca l’intelligenza, manca la pazienza, manca la voglia di imparare, manca la tecnica, mancano il naso e la bocca».

Eppure basterebbe assaggiare quel piccolo ammasso di miele, zucchero, albume e frutta secca… e tutto sembra così semplice, chiaro, immediato.

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