Piacere assoluto e friabileIl mandorlato eroico e “resistente” di Scaldaferro

Una storia di dolcezza, passione e testardaggine si scopre tra le caldaie di un torronificio nel Veneziano. E con un gesto imprenditoriale antieconomico e antistorico, l’artigianato nel piccolo laboratorio regala emozioni che raccontano una storia unica, tra mieli preziosi e l’etica della qualità

Le fette di mandorlato di Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)
Le fette di mandorlato di Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)

Pensavate al torrone come un dolce (a volte troppo dolce) annesso alla tavola natalizia? Magari da scartare con la calza della befana? Allora forse dovreste conoscere Pietro Scaldaferro, uno che aveva studiato da avvocato e ha pure esercitato, ma che oggi rappresenta un baluardo di resistenza per una produzione artigianale che fa del mandorlato un’arte. E lo abbina ai formaggi e alla birra, al vino e al pane, al cioccolato e agli spirits.

Più precisamente il suo torrone si declina al plurale, come la pluralità dei mieli pregiati che utilizza: al miele di corbezzolo si accoppiano le mandorle siciliane, al miele di sulla abruzzese le noci Lara, al miele di ciliegie Ferrovia (lungo la linea Adriatica) le mandorle pugliesi e il pistacchio siciliano si armonizza col miele di coriandolo, mentre il miele di rosmarino gioca di seduzione con la nocciola trilobata delle Langhe (prodotto destinato a uscire dalla produzione, «perché l’intera filiera delle nocciole in Langa è saltata e tocca svenarsi per trovare qualche decina di chilogrammi»). C’è poi il più local di tutti, il raro miele di barena raccolto da apicoltori che piazzano le arnie in mezzo alla laguna di Venezia e che conferisce al torrone un sentore iodato.

Dal miele agli archetipi
A ogni miele corrisponde un archetipo «ovvero a un certo tipo di persona, a un certo tipo di gusto, a un certo tipo di carattere e – assicura Scaldaferro – anche a un certo tipo di abbigliamento. Quindi quando entra una persona nel nostro spaccio io la guardo in faccia e so qual è il suo miele, promettendo un sapore in armonia con le sue preferenze». Il torrone al miele di ciliegia e mandorle, leggermente balsamico, è per una persona semplice che ama le cose genuine e cerca un gusto che arrivi immediatamente in bocca. Il miele di corbezzolo sardo di Castelsardo (già premiato come miglior torrone italiano) con una mandorla robusta è indicato per chi ama i contrasti, mentre Il miele di arancio con infuse bacche di pepe di Sichuan è per una persona un po’ più sofisticata, una donna un po’ più appariscente o un ragazzo giovane e intrigante. «L’abbinamento tra il miele di coriandolo toscano leggermente acido e la grassezza del pistacchio di Bronte gioca bene con le birre e seduce i curiosi – rivela l’artigiano – mentre la sulla abruzzese e la noce Lara di Adria piace a chi si veste di iuta, è ambientalista e potenzialmente vegano. E poi c’è il miele di limone calabrese che esalta la noce Pecan texana (sacra per i nativi americani) per una persona un po’ rude, con l’anima da cowboy». Torna la mandorla pugliese a porgere il braccio al miele di rosa damascena (raccolto in Bulgaria, nella valle delle Rose, da dove vengono le essenze utilizzate da Yves Saint Laurent). «È la storia stessa del torrone, nato dall’acqua di rose condensata con lo zucchero dagli arabi, c’è tutta una storia sul torrone», chiosa Scaldaferro, che lo dedica a un tipo umano assolutamente sofisticato, tra foulard e la prima della Scala.

La ricerca non si ferma mai e nei pochi momenti liberi il “mister Mandorlato” veneziano gira il mondo e inventa nuove delizie. Come il nuovissimo torrone che avvolge le mandorle nell’impasto di miele di timo selvatico dei monti Iblei, «un presidio Slow Food fuori di ogni grazia di Dio, raro perché si stanno riducendo le aree selvagge nella zona», con zenzero e la spinta citrina delle bacche di Adaman (della famiglia dei pepi), raccolte a Sumatra dalle popolazioni Batak e fatte essiccare nella foresta.

Oltre alle limited edition ci sono i classici, il torrone morbido, le sottili sfoglie ricoperte di cioccolato, i tartufi con granella di torrone, la biscotteria, ma anche tortine e pochissimi panettoni riservati a chi visita lo spaccio in terra veneziana. E poi ci sono i preziosi mieli di piccoli apicoltori “complici” di una visione del mondo, oltre che del creare torroni.

Alcune Limited Edition di mandorlati di Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)
Alcune Limited Edition di mandorlati di Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)

Artigiani “resistenti”
Tutto molto bello e tutto molto difficile. «Siamo artigiani dal 1800 – Pietro Scaldaferro va dritto al punto –. La gente viene qui a visitarci e se ne va ridendo. Spesso gli ospiti si chiedono se sia possibile qualcosa del genere e talvolta diventa frustrante esser visti come il circo per i bambini. Questo lavoro è una cosa antistorica, antieconomica, ma eccezionale da certi punti di vista». Non servono giri di parole. Perché quel laboratorio a Dolo, sulle rive del naviglio Brenta frequentato un tempo dai patrizi della Serenissima per la villeggiatura, è una sorta di “riserva ecologica” dove la produzione artigianale ha un’anima fatta di dedizione, emozione, eccellenza.

Perché allora il progetto Scaldaferro è tanto prezioso quanto difficile da proteggere dall’estinzione? «Perché la nostra lavorazione è unica – replica Pietro – le nostre materie prime sono uniche e il metodo di lavorazione è unico. Unico e irripetibile, non perché ci sia un know-how straordinario (pur se costruito in cent’anni), ma perché è antieconomico ed estremamente faticoso. Il processo di produzione impegna me in prima persona e poi i miei collaboratori dalle 3.30 della mattina fino alle 21 di sera, per tutta la stagione di produzione. E poi abbiamo la gelateria, perché – volendomi fare del male – ho raddoppiato per destagionalizzare e anche per utilizzare il nostro torrone anche d’estate».

Tutto è curato nel dettaglio. E d’altra parte non potrebbe esser altrimenti, se si considera la storia della piccola “fabbrica di dolcezza” e soprattutto come è iniziato il percorso di Pietro in azienda.

Di business dolce e toghe appese al chiodo
È interessante sottolineare come, prima di Scaldaferro, non esistesse una tradizione dolciaria in zona e oggi Pietro Scaldaferro sembra uno di quei giapponesi rimasti a difendere il fortino mentre tutti si sono arresi. Una forma di resistenza, forse di utopia, che conquista l’anima e non solo il palato.

Tutto affonda le radici in una storia di famiglia. «Il mio bisnonno era un rappresentante della Lazzaroni, la prima azienda che faceva dolci in Italia – ricorda Pietro – e ha capito che c’era voglia di dolce. Nel 1890 decide di investire i soldi fatti con la mediazione di terreni e il commercio di cavalli in un laboratorio dolciario. Lui però non era del mestiere e ha chiamato un francese e un piemontese: il primo per insegnargli i lievitati, il secondo per il pastigliaggio (mente, anici, toffee). Il bisnonno era il businessman, ci ha messo il capitale e trattava con i clienti, mentre i figli apprendevano il lavoro».

Poi la produzione si è sviluppata su due linee: panettoni, torrone e caramelle da un lato e biscotti dall’altro. E la svolta arriva nel 1999, quando Pietro è chiamato a una scelta di vita. «Io non lavoravo in azienda, ero avvocato – racconta l’imprenditore – ma quell’anno muore mio zio e mio padre, vicino alla pensione, mi pone davanti a un bivio: chiudere le due aziende oppure tornare al business di famiglia. Io però ero il numero due in un grande studio legale, lavoravo tantissimo e quell’anno muore improvvisamente anche il titolare dello studio e mi viene offerto di proseguirne l’attività».

Codici e cavilli o un dolce ritorno alle radici? Il dubbio è stato cruciale, ma per chi legge è facile intuire come Pietro abbia fatto una scelta di cuore. E la rifarebbe, assicura, perché «nonostante la fatica è un mondo bellissimo».

Pietro Scaldaferro, alla guida del Torronificio Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)
Pietro Scaldaferro, alla guida del Torronificio Scaldaferro (credits Torronificio Scaldaferro)

L’addio al panettone
Nel frattempo il mercato dolciario cambia. «Nel 2000 ho dovuto riorganizzare i due laboratori – riprende – e ho chiuso con biscotti e wafer, sui quali sarebbero serviti investimenti importanti, ma anche con il panettone, perché non era ancora tornato in auge come negli ultimi anni. L’industria in quegli anni aveva distrutto l’idea di qualità per biscotti e panettoni. Le pastiglie di tradizione hanno resistito ancora poco, ma alla fine mi son concentrato sul torrone che posso gestire in maniera accurata lungo tutto il processo. Ho dovuto rinunciare a tutti quei prodotti che, nonostante i nostri fossero straordinari, erano stati industrializzati e ho ottenuto l’unica cosa che non era replicabile».

Non ci sono segreti segretissimi dietro alla qualità eccelsa del mandorlato Scaldaferro, «perché la struttura del prodotto è data dalla tecnica di lavorazione della materia prima – precisa Pietro – ma proprio per questo non è replicabile su scala industriale. Non è plausibile infatti seguire la montatura a vista, con un cambio di velocità da gestire durante il processo. E poi il nostro prodotto ha dentro il 35 per cento di miele e il 55 per cento di mandorle, una cosa che non fa nessuno al mondo. Quando l’impasto è pronto, arrivo io a fare l’ultima verifica e poi si gestisce a mano perché, se venisse pressato, non avrebbe la stessa friabilità». Anzi, per mantenere perfettamente intatta la consistenza, anche le “sfoglie” sottilissime di mandorlato (pensate per chi fatica con i blocchetti più grossi) vengono lavorate non con la sega, ma con una lama ultrasonica che taglia e cauterizza allo stesso tempo.

Tutto replicabile, dunque, ma non lo fa nessuno perché è antieconomico e il costo di produzione è più che doppio rispetto ad altri torroni sul mercato. «E con gli aumenti delle materie prime diventa sempre più difficile – aggiunge – tanto che sono costretto prima a fare il prodotto e solo dopo a fare il prezzo».

Produzione cesellata, che costa cara
La produzione – cesellata e limitata – arriva a 400 chili di prodotto al giorno ed è pianificata sulla base degli ordini. «Purtroppo però più si avvicina il Natale più andiamo in crisi – spiega Scaldaferro – perché con l’autunno caldo e con Halloween il “senso del Natale” ritarda e ritardano gli acquisti (dei buyer, ma anche dei consumatori). Per questo il mio periodo di produzione si riduce, perché devo attendere gli ordini per avviare il lavoro e poi, quando arrivano, ho comunque un limite di quantitativo che non sempre soddisfa la domanda».

Ecco che la limitata lungimiranza dei buyer penalizza su scala di filiera questa nicchia dolce. Oggi Scaldaferro ha un mercato suddiviso per il 40 per cento grande distribuzione (che per fortuna riesce a programmare) e per il 60 per cento negozi specializzati, ci sono anche ordini diretti online (spesso penalizzati dalle consegne), mentre l’horeca risulta marginale. «Ho avuto piccoli acquisti da Alajmo, Cedroni, Cannavacciuolo, ma anche Marchesi utilizzava il mio prodotto – ricorda – ma salvo il piacere del rapporto questo non fa il mercato. Per il resto, il costo del prodotto è insostenibile per il livello a cui lavora gran parte dell’horeca».

La capacità di spesa, solitamente, sale oltre i confini italiani e in effetti i prodotti Scaldaferro hanno non pochi ammiratori. Purtroppo però l’export – anni fa solido verso i Paesi anglosassoni, arrivando al 20 per cento del fatturato – si è molto ridotto per la Brexit in Regno Unito, per la crisi dei consumi legata all’inflazione negli Stati Uniti, per le complicazioni logistiche in Australia e per i prezzi in Canada. «Non è facile vendere prodotti che, quando vengono caricati di tutti i costi di trasporto e distribuzione, finiscono per esser un puro lusso», riconosce Scaldaferro.

D’altra parte è quello, in generale, il discrimine. «Tutti ci conoscono, tutti ci apprezzano, tutti vorrebbero il nostro prodotto – chiosa l’imprenditore – e quando andiamo alle fiere sono tutti entusiasti, ma poi frenano quando vedono che per ottenere quell’eccellenza il prezzo medio del nostro prodotto è doppio rispetto alla media». Ci sono il costo del personale e i prezzi alle stelle delle materie prime – dalle mandorle perfette al miele di piccoli produttori senza compromessi, dallo zucchero veneto al cacao certificato. «È tutto lì, una questione di qualità controllata ossessivamente sempre», conclude.

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