Bivio creativoNuove promesse e conclamati geni corrono ai ripari della fashion week uomo

La moda uomo italiana sta affrontando una crisi di autorevolezza generalizzata. Non tutto è perduto, se si torna a sostenere (davvero) i nuovi talenti

Collage Linkiesta Etc

Se non l’avessimo già capito, dopo questa striminzita settimana di Pitti e Milano moda uomo (relativa all’autunno inverno 2025), è chiaro che il settore è in crisi. E non si parla qui di numeri – e infatti quelli del Pitti 107 sono buoni: tredicimilatrecento compratori registrati, di cui cinquemila dai mercati esteri, con un’inflessione positiva di questi ultimi, che salgono del 6,5 per cento – quanto di una generalizzata crisi di autorevolezza, afflizione che però l’Italia condivide con la Francia e con gli altri principali mercati nei quali la moda è una voce rilevante del Pil.

Le motivazioni sono variegate, alcune storiche, e quindi senza colpevoli da inchiodare alle proprie responsabilità, altre richiedono invece un ripensamento del sistema. Certo, i prezzi delle maison sono saliti alle stelle e hanno causato un allontanamento della fascia aspirazionale, con i più giovani che hanno preso ormai gusto nell’acquistare falsi d’autore – pardon, i “dupe” – e di conseguenza riservano poco interesse anche ai validi brand della fascia premium, con costi tutto sommato ragionevoli, che espongono al Pitti. Alcune maison hanno semplicemente preferito saltare la manifestazione della moda maschile milanese per presentare le collezioni in co-ed a febbraio, come Gucci e Fendi (che pure festeggia nel 2025 il suo centenario). Ciò che si è pagato, in questo gennaio, è stata l’incapacità strutturale italiana di sostenere i talenti più giovani, o attrarre nomi nuovi dall’estero (per il suo debutto in Europa, l’americano Willy Chavarria ha optato per Parigi). La fortuna però, è che questa crisi di cui si è pagato il costo economico già nello scorso anno – con cinquanta milioni di consumatori del lusso andati persi, secondo lo studio Luxury Goods Worldwide Market Study Altagamma-Bain – sembra essere reversibile: si è, insomma, al bivio.

Setchu. Photo by Giovanni Giannoni

E a questo bivio si incontrano sorprese inaspettate, come la sfilata che Satoshi Kuwata manda in scena alla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze: un défilé nel quale il giapponese vincitore dell’LVMH Prize 2023 amplia la visione creativa del suo brand, Setchu, mostrando al pubblico il fascino dicotomico della sua cultura di origine. Seppure guidata da un’ossessione per il riduzionismo, con il titolo della collezione che recita “I want less, and then less than that”, la sfilata non lesina, di contro, sulla multi-funzionalità: le sahariane e i cappotti possono essere accorciati, camicie e blazer si estendono in pannelli quadrati, le code di un frac possono essere infilate all’interno. Il rimando continuo alla sartorialità, cifra stilistica del mondo giapponese, trova il giusto sfogo in tre pezzi bespoke sviluppati da Davies & Sons, la più antica sartoria ancora in attività a Savile Row: un tight, un blazer doppiopetto blu con bottoni dorati e un frac, tutti realizzati con le pieghe origami tipiche del brand. Una rivisitazione omoerotica di “The tale of Genji” trova invece spazio su un jacquard policromo di seta in stile kimono.

Guarda invece alla mitologia di Giasone e degli Argonauti alla ricerca del vello d’oro, Alessandro Sartori per Zegna, con una collezione che ribadisce quanto l’eleganza non sia tanto una questione di hype, quanto di ricerca materica e coerenza con se stessi e il brand che si rappresenta: per questa occasione John Turturro sfila – prendendo il testimone da Mads Mikkelsen nella comoda panchina della prima fila – e il vello d’oro della mitologia, nella narrazione di Zegna altro non è che la lana con il maggior grado di finezza possibile (secondo gli annali del brand, che istituì già nel 1963 i Wool Trophy Awards, il record è stato stabilito nel 2023 con una finezza di 9,4 micron). Le silhouette sono morbide, decostruite, come le indossava il fondatore Ermenegildo Zegna, con macro-pattern e micro-motivi donegal, che sottolineano il gioco delle proporzioni. La contemporaneità, la qualità che concede a Zegna di piacere a nonni, padri e figli, è non tanto nella qualità – concetto mai andato fuori moda nel brand nato a Trivero (BI) – quanto nel modo di indossare i capi o, come direbbero gli addetti al settore, nello styling: i cardigan e i maglioni sono infilati nei pantaloni a vita alta, le tasche sono diagonali e basse, comode abbastanza per infilarci agevolmente le mani; le camicie possono essere indossate per sovrapposizione; la giacca “Il Conte”, classico della maison, è presentata in montone, formato gilet o in una versione in jersey Oasi Cashmere. La palette guarda probabilmente alle cromie affascinanti di cui si tinge l’Oasi Zegna in autunno: il comunicato cita «note neutre di fossile, ginepro, fogliame scuro, serra, castoro, rosso Gattinara e falesia con nuance di Sessera, arnica, giglio montano, terracotta e accenti di nero opaco», capaci di tessere un convincente filo trans-generazionale incurante di nicchie oscure di TikTok e micro-trend che lasciano il tempo che trovano.

Zegna Men FW25 Look 28. Courtesy of Zegna

E proprio parlando dell’invasione dei social nella costruzione di un armadio – afflizione che trova nella Gen Z cresciuta a pane e doomscrolling il suo paziente zero – Prada riflette sull’istintività quasi primordiale con la quale i suoi uomini si vestono. Rispondendo tacitamente a tutti quegli articoli che hanno invaso le pagine dell’internet negli ultimi mesi – quelli che appunto, si lamentavano della schiavitù alla quale ti costringevano i velocissimi trend del web, e si chiedevano dove trovare spunti più autentici per costruire uno stile personale – Miuccia Prada e Raf Simons orchestrano un guardaroba che mette insieme le ossessioni per l’abbigliamento da camera forse più afferenti alla Signora della moda milanese (con pigiami tradotti in pelle) e l’afflato costante alla club culture di Raf Simons, con una location tramutata da AMO in una struttura industriale in metallo, contrapposta invece a un tappeto ispirato all’Art nouveau firmato da Catherine Martin. I cappotti in montone si mettono sopra il pigiama, magari per scendere al bar più vicino a recuperare una colazione, affamati ma privi del desiderio di agghindarsi, e ai piedi si infilano degli stivali da cowboy (leitmotiv classico dell’estetica di Simons che però, dopo l’esplosione del trend country, iniziato più di quattro anni fa, appaiono fuori tempo massimo). I cappotti hanno costruzioni che ricordano i formalismi degli Anni Quaranta, i colli in pelliccia – in realtà montone – hanno silhouette irregolari, a ricordare quell’atteggiamento dégagé, perfetto proprio perché incurante. In una parola: “Prada-ness”. Una sprezzatura che si decora con charms e ninnoli apotropaici, ancòre sui maglioni, palle da baseball nei bracciali, memorie di vite passate o aspirazioni future, indossati da modelli le cui fisicità smilze, preadolescenziali, non sembrano registrare il cambio di passo di tutti i discorsi sui corpi del mondo reale fuori dalle pareti della Fondazione.

Prada Men FW25. Courtesy of Prada

A invadere i feed dei social degli addetti ai lavori sono stati invece i JordanLuca, duo creativo e sentimentale formato da Jordan Bowen e Luca Marchetto, che hanno deciso di unirsi in matrimonio, con tanto di officiante, familiari e amici, alla fine della sfilata. La precisazione necessaria è che nel passato recente c’è stata almeno un’altra occasione nella quale un matrimonio ha fatto da chiusura a una sfilata. Si parla qui dello show per la spring/summer 2017 di Pigalle, brand di streetwear fondato da Stephane Ashpool, che “convolò a nozze” – per finta – con la sua fidanzata dell’epoca Marissa Seraphin (una scelta forse accorta, considerato che oggi Ashpool non è più accompagnato dalla stessa donna, ed è divenuto padre). Il matrimonio di Jordan Bowen e Luca Marchetto è invece reale in ogni senso, e festeggia con un atto radicale e inconsueto l’eccezionalità di due esseri umani di creare un loro percorso, seppur difficile e non privo di asperità, rimanendo però insieme come atto di resistenza. Pur essendo stato commovente nella maniera anticonformista che caratterizza il duo, la cerimonia ha forse tolto visibilità a una delle loro collezioni più riuscite, capace di far dialogare la club culture che Bowen e Marchetto vivono e hanno vissuto nel loro quotidiano – fatto di più di quattordici anni insieme – con una tensione che guarda al sartoriale, come nella costruzione dei cappotti e dei pantaloni corredati dalla zip Robin, orizzontale sul davanti o sulle tasche. E in effetti la celebrazione della Gran Bretagna delle tessiture (inglesi e scozzesi) è esplicitata nel comunicato stampa, che parla di collaborazioni con due di quelle tessiture rimaste ancora attive, Harris Tweed e Marton Mills.

JordanLuca Men FW25. Courtesy of JordanLuca

Chi di sartoria in Italia riesce a parlare in maniera credibile e contemporanea è però Dolce&Gabbana, che dedica la sua collezione alla figura del paparazzo, neologismo inventato da Fellini e Flaiano per battezzare il personaggio del fotografo alla ricerca di scoop e segreti nelle vite dei divi protagonisti de “La dolce Vita”. Il termine, per gli appassionati di corsi e ricorsi storici, viene probabilmente da un libro di George Gissing, “Sulla riva dello Jonio”, nel quale l’albergatore che ospitò lo scrittore inglese a Catanzaro –  di cui poi Gissing parlò sempre con ammirazione – , si chiamava proprio Coriolano Paparazzo. Una leggenda tra le tante, sull’origine (incerta) di una parola poi divenuta nota a livello mondiale, con una sua epica, che il duo italiano ha tradotto in maniera letterale, con molteplici fotografi in completo nero che scattano l’uscita di ogni look, che tramuta ogni modello, seppur nello spazio di una sfilata, in un divo hollywoodiano dotato di una personalità carismatica di cui è necessario cogliere ogni dettaglio vestimentario per poi riproporlo. Le spille preziose dei completi da sera con camicie in raso si ispirano agli Anni Quaranta, mentre i look da giorno si compongono con maglioni in filati spessi e avvolgenti, flanella pesante, lana e tweed. L’alfabeto stilistico di Dolce&Gabbana mette l’accento sui grandi classici: coppole, pantaloni cargo, canotte, da indossare ad libitum.

Dolce&Gabbana Men FW25. Courtesy of Dolce&Gabbana

Ad avere costruito negli anni un vocabolario stilistico convincente e identitario è anche Magliano, brand dotato ormai di una sua autorevolezza, tale per la quale a presenziare nelle prime file non sono tanto le celeb a cui aspirano solitamente i brand più giovani, ma i colleghi dello stilista bolognese, da Veronica Leoni a Sabato De Sarno, passando per David Koma, Adrian Appiolaza e Simone Bellotti. Luca Magliano prosegue nel suo racconto di un uomo che indulge negli eccessi di un menagè a trois tra il mare del litorale adriatico, la notte e l’inverno. Peregrinando per le spiagge, in quell’atto peripatetico tanto caro a Sandro Penna, il poeta delle passeggiate che da sempre è nell’empireo dei riferimenti di Magliano, i bagliori lunari riverberano sulla maglieria decorata da cristalli Swarovski, mentre dall’amplesso intriso di nostalgia di questa stagione nasce una nuova etichetta di capi basici riletti, “Nudo by Magliano”.

Il brand prosegue nel solco delle affinità elettive con il femminile lanciate la scorsa stagione, durante la quale andarono in scena maglioni realizzati insieme a Jezabelle Cormio, dell’omonimo brand. Per l’inverno, ad aggiungersi a questo gineceo di anime affini, sono le sorelle Medea, che realizzano una borsa rivestita da slip, a ribadire una certa attitudine del brand, che realizza abiti ma aspira da sempre alla nudità, sia corporea sia emotiva. Una fragilità violenta, che si fa notare nei colli della maglieria, profondi e netti, ingentiliti da camicie dai colli romantici, accompagnati da pantaloni in mohair ruvido e giacche a coste di cotone. La nostalgia esplode nelle stampe delle maglie e dei maglioni: discoteche mitologiche, civiltà scomparse, giochi dell’infanzia. Un sentimento reso alla perfezione anche dalla passerella, che ricrea un litorale dove i castelli di sabbia dalla giocosità bambinesca stanno accanto a detriti e ricordi di notti sudate. L’epopea di questo eroe notturno e orgogliosamente fragile si conclude sulle note di “Dio, come ti amo” di Domenico Modugno, dolente composizione da gran finale, perfettamente in linea con i brani usati per le uscite collettive delle stagioni precedenti, un soundtrack ideale che include tra gli altri Milva con “Chi mai”, Umberto Bindi con “Arrivederci” e Fabrizio De Andrè con “La domenica delle salme”.

Magliano Men FW25. Courtesy of Magliano

La penuria di sfilate ha avuto però come piacevole effetto collaterale la proliferazione di eventi alternativi, magari adatti a brand per i quali il concetto di défilé è irraggiungibile a livello economico, oppure semplicemente distante dal proprio Dna. È il caso di GR10K, che complice una storia comprovata nell’abbigliamento da lavoro, si ispira a Der Bluae Reiter, collettivo artistico formato da Vasilij Kandinskij, Franz Marc, Paul Klee, August Macke, Gabriele Münter, Alexej von Jawlensky e Marianne von Werefkin. Se la ricerca di un uniforme è stata in effetti ossessione di tutti i movimenti artistici che si volevano identificare in un preciso guardaroba, in questo caso i cappotti e capi da automobilista di inizio del Ventesimo secolo sono abbinati a grafiche punk, o anche a colori infantili che rimandano a certe dinamiche del marketing roboante degli Anni Ottanta. La presentazione di Strydent Syntax – nella quale è apparsa anche una scarpa realizzata in collaborazione con Salomon – è avvenuta all’interno di un’aula dell’Auditorium di San Fedele, dove dodici studenti di canto classico hanno intonato chanson del Quindicesimo secolo, remixate poi attraverso l’uso di un drone elettronico, riferimento alle scene di apertura e chiusura di “Last Days” di Gus Van Sant.

Maragno, brand che ha fatto della poesia soffusa un suo biglietto di presentazione, esplora con “Radici” le connessioni tra uomo e natura. Di conseguenza, le silhouette morbide si tingono di toni terrosi e caldi, con cappotti avvolgenti realizzati in tessuti preziosi, come cashmere, lane vergini e seta. Il virtuosismo non è solo nella creatività, che dichiaratamente non vede generi di appartenenza, quanto nell’upcycling (i tessuti utilizzati provengono da rimanenze di stock, esclusivamente italiane). Le sciarpe oversize sono rassicuranti nei volumi maxi, e più in generale questo guardaroba non sembra assolvere meramente alla funzione pratica della vestizione – quella di ripararsi dai freddi invernali – quanto dall’immergersi, mimetizzandosi, in una natura con la quale si osserva un rapporto di pacificata co-dipendenza. Un discorso simile, sulla funzionalità e lo spirito di adattamento umano, lo fa Ludovico Bruno da Mordecai. Ex designer di Moncler che ha da qualche stagione lanciato il suo progetto personale, Bruno è indubbiamente in possesso di tutte le competenze tecniche per costruire una collezione dai toni neutri, ma certo non scialba. Esperto di outerwear, i piumini e i cappotti si costruiscono su tele di tessuti tecnici e naturali, il nylon si accoppia con la mussola di cotone, la viscosa cupro si accompagna alla lana secca sulle silhouette femminili, per creare un armadio dal quale attingerebbero con piacere i Fremen, vagabondi dei deserti interstellari di Dune, il libro di Frank Herbert tramutato di recente in kolossal da Denis Villenuve ( anche se nel 1984 quel film lo aveva già realizzato David Lynch).

In Fondazione Sozzani sono invece andate in scena le presentazioni di Federico Cina e Andrea Grossi. Il primo riflette con la nostalgia quieta che lo caratterizza, sulla figura dei nonni Assunta e Giacomo – che danno il titolo alla collezione – scomparsi lo scorso anno, riproducendone il guardaroba essenziale. Una coppia semplice, di origine contadina, ma la cui eleganza rustica riverbera nei blazer, nei maglioni fatti a mano con nove colori di lana merino ritorti insieme e nell’utilizzo di materiali grezzi, dalla bellezza selvatica, solo all’apparenza poco ricercata. Una collezione che è accompagnata, come sempre, da una performance artistica: in questo caso si tratta di dodici quadri, tableaux vivant che corrispondono ad altrettanti ricordi dell’infanzia, memorabilia che riescono a trasportare in un centro culturale di Milano come la Fondazione Sozzani, il ricordo dolceamaro di due avi che poco hanno viaggiato nella loro vita.

Maragno Men FW25. Courtesy of Maragno

Dalla stessa regione, l’Emilia-Romagna, arriva Andrea Grossi, classe 1996, ma il suo approccio è più ruvido che rustico. Al centro di “The casting”, nome dato alla collezione autunno/inverno 2025, c’è lo studio del denim, destrutturato, ricostruito, con volumi fluidi o tradotto su texture che hanno la tattilità della pelle, più che della tela di jeans come la conosciamo. Sempre seguendo il concetto di performance – capace a volte di dire molte più cose di quante ne illustra una sfilata – durante la presentazione di Grossi orchestrata dal regista Filippo Savoia, i modelli sono impegnati in quelle che il comunicato stampa definisce “audizioni libere”, momenti a metà tra un’entusiasta vitalità e l’imbarazzo nell’essere osservati. Le t-shirt hanno pesantezze diverse: vanno da quelle in cotone grezzo e ruvido a quelle morbide, che rappresentano una sottile linea di confine tra il corpo e il mondo. Una testimonianza di un’Emilia elettrica, la stessa che ha partorito la formazione dei CCCP, la cui canzone, “Emilia Paranoica”, è omaggiata dalle stampe “Emilia Paranoia”, che raccontano della noia e della vitalità della provincia, la sua sublime ordinarietà e gli eccessi nei quali ci si riversa nel tentativo di sfuggirvi.

Nel mentre, Milano ha già passato il testimone a Parigi, che ha inaugurato la sua settimana della moda maschile, con la sfilata di Louis Vuitton, un lavoro di gruppo tra Pharrell e Nigo (direttore creativo di Kenzo). Una celebrazione di un’amicizia che ha più decadi di molti dei compratori attuali del brand, ma anche di una partnership creativa (i due avevano già collaborato vent’anni fa, quando esattamente nel 2003 avevano fondato il brand “Billionaire Boys Club”). Una collezione che si costruisce sull’accumulo di oggetti e memorabilia, incapace nonostante la moltitudine di capi, di produrre un senso che afferisca al contemporaneo.

A presenziare, insieme a celebrity e artisti, come Ebon Moss-Bachrach, J-hope, Travis Scott, Adrien Brody e Victor Wembanyama, c’è il patron Bernard Arnault, appena atterrato a Parigi da Washington, dove si era recato per partecipare alla cerimonia di insediamento di Donald Trump come quarantasettesimo presidente degli Stati Uniti. Una mossa che può essere umanamente criticabile, ma che è coerente, se si pensa che nel 2019 proprio alla presenza di Trump, Arnault inaugurò una manifattura in Texas, il Louis Vuitton Rochambeau Ranch, con l’obiettivo di creare mille posti di lavoro nei seguenti cinque anni. Posti di lavoro che potrebbero superare le aspettative, ora che l’America si è ritirata dagli accordi di Parigi sul clima, e per tutte le maison che lì producono, sarà quindi più facile realizzare capi di abbigliamento sfilandosi da norme stringenti (quantunque necessarie) che non hanno prodotto nessun tipo di profitto materiale, l’unico che ai conglomerati interessa. D’altronde, “business is business”. Nel frattempo, chi potrebbe subirne un contraccolpo è il “vetusto” Made in Italy, con laboratori artigianali e aziende familiari già messe in seria difficoltà nello scorso anno dagli ordini altalenanti e dalle scadenze impossibili richieste dalle maison. Siamo al bivio, si diceva. Si spera solo che la moda italiana abbia il coraggio di imboccare la strada giusta. Sarebbe un peccato, d’altronde, sprecare il potenziale creativo e umano di nuove promesse e conclamati geni che rendono ancora, e nonostante tutto, questa penisola del Mediterraneo un sinonimo di stile e baluardo dell’artigianalità.

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