La sindrome del servoI cuochi sono Apple, i maître sono cordless

Nella visione del direttore di uno dei ristoranti parigini più alla moda e con una brigata molto italiana, Giacomo Gironi, la sala non è abbastanza considerata (anche) per una questione di consapevolezza

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Giacomo Gironi ha una personalità decisamente forte, è un direttore di sala con una grandissima reputazione e gestisce uno dei ristoranti più cool di Parigi, Hémicycle, una stella Michelin che parla italiano in terra straniera. Con il suo carisma e le sue idee decisamente dirompenti è un opinion leader del settore, e sta costruendo una visione nuova di questa professione, spesso spiegando le sue ragioni e le sue idee dal suo account instagram. Abbiamo chiesto anche a lui come mai gli chef sono celebri e il personale di sala no. Ecco la sua risposta, articolata e complessa, ma che ci dà modo di riflettere sul cambiamento del concetto di lusso e sulla necessità di cambiare la percezione del valore delle persone che lavorano in sala: da servitori a consapevoli professionisti competenti.

Come molt* giornalist* mi hanno scritto: «Giacomo, non sappiamo cosa scrivere…» o la versione onesta: «Giacomo, non sappiamo come rendervi interessanti». Questo anche perché sono molto pochi i giornalisti che si sono occupati seriamente dello “stare a tavola”: se non conosci i codici non puoi analizzare nulla.

I cuochi sono Apple, intuitivi, chiusi, con capacità di contenimento molto chiare. Prendono degli ingredienti, li mettono in un piatto e scandiscono una parte del tempo del ristorante. I camerieri sono ancora cordless, ci siamo tolti l’abito ingessato per metterci kimoni e coreane, tessuti in lino, saio e ciabatte, ma non siamo entrati nella contemporaneità, almeno non per nostra volontà.

I cuochi sono andati in giro, hanno fatto esperienze, si sono lasciati permeare dal cibo. I camerieri hanno come riferimento ancora Giovanni Della Casa e quel grimorio di stregoneria morale che è il Galateo (o lo scalco alla moderna di A.Latini).

Il problema mediatico è presto risolvibile: quando realizzi un quadro, un piatto, una scultura, un’automobile, una canzone, per la necessità estetico-archivistica tipica dell’essere umano, e per un mix di ambizione/invidia e ammirazione, il piatto è qualcosa di facilmente riconducibile ai cinque sensi. That’s it!

Noi se serviamo una salsa o facciamo una découpe in sala, decantiamo un vino, prepariamo un miscelato, cambiamo una posata, presentiamo un piatto stiamo di fatto gestendo tre reparti contemporaneamente, diamo fiato alla cucina, vendiamo un prodotto in più, che sbilancia lo scontrino, e quindi è contenta anche la proprietà, e il cliente vive e vede uno show con una certa quantità di gioia, e così anche il cliente è felice.

Il punto è che secondo me il servizio, alto, non si è ancora adattato alla morte del lusso come prodotto esclusivo, non riesce a passare dal “caviale allevato da vergini scalze” all’esperienza che complessivamente il cliente – no – l’ospite deve vivere.

Abbattere questo muro non è affatto banale. Significa mettere in discussione delle certezze granitiche, che però non hanno più senso di esistere, bisogna avere una conoscenza profonda del proprio mestiere, per poi rompere gli schemi, essendo scanzonati, abbandonando le rigidità, ponendosi in maniera laica nei confronti dell’ospite, sì anche di quello che sboccia Romanée Conti, lì metti sul tavolo le tue competenze, ma per il resto del tempo dobbiamo sgonfiare questa pomposità inutile, svecchiarci sul serio, pensare che i soldi del nostro ospite non ci pongono in una posizione di sottomissione (la sindrome del servo) ma ci consentono di spiegare quello che abbiamo imparato.

Certo vanno riviste priorità e orari. Questo è il vero elefante nella stanza.

La “vita nova” del cameriere passa attraverso  la comprensione del proprio valore, e la messa in crisi (l’unica messa alla quale assisterei) dei vecchi valori, individuando quelli che proprio sono invecchiati male: che ne so, passare 400 ore al ristorante perché siamo una grande famiglia. What?!? Io ho una famiglia d’origine e vorrei avere il tempo di crearne una mia. Vuoi il mio tempo? Lo paghi. E comunque deve essere contenuto.

Poi c’è il tema della cultura e la formazione, le differenze tra un vetro e un cristallo, tra ceramica e porcellana,  tra fare un colloquio e tenere un colloquio, insomma la scala delle responsabilità che cresce con le competenze.

Ma bisogna partire dai gangli per riuscire ad aprire la porta: bisogna cominciare a darsi valore, prima come esseri umani e poi come categoria.

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