Questa è una storia di gente che torna sempre e di gente che non torna mai, il che potrebbe farne la storia di tutte le storie d’amore ma invece è solo una storia di giornali, coincidenze, dischi, ossa rotte. Questa è la storia di Lorenzo che ieri sera sale su un palco da solo perché non gli serve un intervistatore («se mi intervistasse il tizio alla tv, io gli direi che siamo tutti fessi»), e non dice d’essere «meno sereno d’un tempo, ma non per questo stanco» – ma è come se lo dicesse.
Il giorno in cui a Washington usciva l’articolo più brutto dell’anno (neanche metà gennaio, e già avevamo un primato), io ero a Castrocaro a guardare Jovanotti che provava il suo prossimo concerto, in un albergo con un’architettura déco stupenda che non si vede mai.
Su Instagram non si vede perché in quel posto lì ci vanno gli influencer a fare i trattamenti (quelli che una volta chiamavamo «dimagranti» e ora «benessere»), e quelli inquadrano solo gli idromassaggi; e dal vivo non si nota perché Lorenzo Cherubini è una popstar, cioè uno di quegli aggeggi che assorbono tutta l’attenzione di chi li circonda: di quei giorni ricordo che le arcate erano stupende, ma ricordo con assai più precisione i cappellini di Lorenzo.
L’articolo più brutto dell’anno l’ha scritto un tizio che compie cinquant’anni a ottobre e, come tutta la mia generazione, è determinato a non crescere. È un articolo sui R.E.M. che avrebbe potuto scrivere il diciannovenne con cui facevo cose zozze a fine anni Ottanta, una sfilza di penzierini in cui il cinquantenne che non ha mai smesso d’essere sedicenne si strugge perché i ragazzini di oggi hanno le magliette dei Nirvana ma non quelle dei R.E.M.
Faccio parte d’una generazione che, all’età alla quale prendiamo le pastiglie per la pressione e per il colesterolo, ci tiene tantissimo al concetto di magliettacollescritte. Will Leitch è in brodo di giuggiole perché ha incontrato il batterista dei R.E.M. e gli ha detto che si chiamava Will e quello ha amabilmente risposto che si chiamavano simili, lui Bill, e quello, con un uso di mondo più adatto a mia nonna con l’altare di Padre Pio in camera che a un editorialista del Washington Post, gongola: ma quanto sono amabili, ma quanto sono umili questi R.E.M.?
Mentre Leitch si struggeva perché il gruppo preferito dei suoi vent’anni ha fatto «quel che più o meno nessun altro gruppo ha mai fatto: ha smesso di suonare», mentre Leitch pubblicava il suo editoriale scritto in un mondo immaginario in cui non si fossero mai sciolti i Beatles (tu che i R.E.M. sono meno rilevanti dei Beatles non me lo dici capitoooo), io mi ricordavo d’un tizio di cui in realtà non mi ricordo.
Uno che ho letto l’anno scorso nei commenti d’un social, e doveva essere un cugino italiano di Leitch. Era una discussione in cui si diceva quanto fossi orrenda io, o qualche tema adiacente, e lui ha fatto la cosa che preferiscono coloro con vite invidiabilissime: raccontare la volta che hanno visto qualcuno che in quel quarto d’ora è il cattivo dell’internet scaccolarsi, o non fermarsi alle strisce arrotando una vecchietta, o non dare la mancia al ragazzo della pizza.
L’aneddoto che portava in dono il tizio era: ero con lei a intervistare i R.E.M., Stipe aveva la borsetta e lei gli ha detto «Come la regina Elisabetta». Era, cosa che in queste circostanze non succede quasi mai, tutto vero. Era una tavolata di giornalisti milanesi, di quelle che oggi servirebbero così i giornalisti possono mettere su Instagram il selfie col cantante, ma era il 2008 e Instagram non c’era (pensa che vita ricca devi avere per ricordarti che cosa una che non conosci ha detto a un cantante sedici anni prima).
«Il vittimismo fa vendere libri», ha detto Lorenzo ieri sera a un certo punto del suo flusso di coscienza, e se basta per i libri figuriamoci se non basta per un commento social. Solo che non so bene chi fosse la vittima nel 2008: la rockstar la cui borsetta viene sbeffeggiata da una stronza qualunque, o il giornalista costretto ad assistere a quell’irrispettoso spettacolo?
Ieri sera guardavo Lorenzo col cappellino con scritto «Oh yeah» e pensavo che è colpa sua, che è il nostro mago Merlino con la camicia hawaiana, è quello che ha condizionato un’intera generazione d’adulti riluttanti che si struggono sui gruppi che ascoltavano al liceo, si offendono per conto di popstar che ignorano le loro esistenze, e si vestono con le felpe col cappuccio. Però Lorenzo un articolo così scemo non lo scriverebbe mai, e non solo perché «minimizzare quello che stai passando è una pratica fondamentale» (è stata un’oretta ricca di affermazioni rivoluzionarie).
Anche e soprattutto perché non potrebbe mai essere così sciatto e banale da scrivere che, signora mia, se ne vanno sempre i migliori, e i Rolling Stones continuano a fare cassa nonostante non siano quelli d’un tempo e invece il mio gruppo preferito non smette d’esser pensionato.
Perché Lorenzo Cherubini, che da quasi quarant’anni si fa chiamare senza vergogna Jovanotti e si veste tenacemente da pirla, è uno che casca cento volte e si rialza centouno, è uno che sa cosa intendeva Jacques Brel (e certi francesi) quando diceva che c’è voluto talento per essere vecchi senza essere adulti, è uno che ieri sera ha fatto mandare delle dediche su uno schermo, e una era «alla gentilezza degli sconosciuti», e io ridevo con le lacrime pensando a tutti quelli che l’avranno preso per afflato poetico, tutti quelli che Tennessee Williams pensano sia parente di Robbie, tutti quelli che se incrociassero Blanche DuBois però capirebbero al volo quanto poco somigli a Jovanotti – forse non sono mai esistiti, nella storia della letteratura e dell’umanità, due che si somigliassero meno della signora DuBois e del signor Cherubini.
Soprattutto, è uno che torna su un palco dopo neanche così tanto tempo – ma con la contemporanea tendenza alla drammatizzazione sembrano sette vite, sembra che il suo sia il primo e l’ultimo femore rotto nella storia del corpo umano – torna e fa vedere le foto dopo il primo intervento, ricucito con dei punti che sembra un arrosto venuto male cucinato da una nonna che s’è rotta le palle di spignattare per i nipoti, torna e se ne fotte di chi pensa che sia più poetico pensionarsi, torna e dice: «Sono così contento di essere vivo, ragazzi, voi non potete immaginare quanto».