«Stare insieme a te è stata una partita: va bene, hai vinto tu, e tutto il resto è vita. Ma se penso che l’amore è darsi tutto dal profondo, in questa nostra storia sono io che vado a fondo». Io non sapevo niente, e Venditti sapeva tutto – il che è abbastanza normale, considerato che lui avrà pure avuto trentacinque piccolissimi anni (sembravano cento), ma io ne avevo undici.
Sapeva tutto, o almeno quel che è importante sapere: che alla gente piace l’io narrante «io inequivocabilmente vittima ma a testa alta», l’io narrante da squarciagolare sentendosi migliori, lasciati sì ma perché non mi meritava, cornuti sì ma non sa cosa si perde.
Io non sapevo niente, figuriamoci se sapevo che “Ci vorrebbe un amico” parlava del suo concluso matrimonio con Simona Izzo che l’aveva lasciato per Maurizio Costanzo. Erano gli ultimi vent’anni del Novecento, quel periodo fatato in cui avevamo tutte le comodità di ora e nessuno dei rumori di fondo. I giornali si occupavano di cose che valeva la pena sapere, i social non esistevano: non sapevamo le vite dei cantanti, le corna dei cantanti, i sottotesti dei cantanti.
(Idea per una puntata di “Black Mirror”: le gallery dei giornali se una Carly Simon di oggi pubblicasse una “You’re so vain”, ostinandosi poi a non svelare chi fosse il tizio con la sciarpa albicocca e lasciando quindi che derelitti i cui genitori hanno speso per farli studiare giornalismo si procurassero dei clic con le ipotesi: di chi è il cavallo che ha vinto a Saratoga, clicca qui, resterai sbalordito).
Dunque io non sapevo niente, ma sapevo tutte le canzonette a memoria, anche “Ci vorrebbe un amico”, anche i versi «E se amor ch’a nullo amato, amore, amore mio perdona, in questa notte fredda mi basta una parola». Versi che non mi chiedevo proprio se citassero altro, che non andavo su Google a controllare, perché Google non esisteva (e ancora oggi non mi fido di chi lo consulta).
Quattro anni e qualche mese dopo, ero seduta al mio banco durante l’ora di italiano, e una professoressa di cui non mi ricordo il nome leggeva il quinto canto dell’Inferno, e già avete capito come va a finire: con la giovane Soncini che strilla «ma è Venditti!» (inspiegabilmente, quell’anno mi bocciarono).
La professoressa aveva l’aria di una che non aveva mai sentito una simile baggianata, e lì per lì io credetti davvero d’essere l’unica che a Dante era arrivata da Venditti e non viceversa, ma ripensandoci non è mica possibile che in quattro anni nessuno mai le avesse detto che di quel verso di Dante aveva già ascoltato il 45 giri. Comunque.
Avanzamento d’un altro po’ di tempo, e – dieci anni dopo Venditti – arriva Jovanotti con quel video in bianco e nero in cui faceva la serenata seduto su un ponteggio da vertigini. «Amor ch’a nullo amato amar perdona, porco cane: lo scriverò sui muri e sulle metropolitane». Avevo ventun anni, Lorenzo ne aveva ventisette: «porco cane» era l’aggiunta che serviva a farci sentire ganzi, era prendere la giacca di Chanel della mamma e metterla sulla minigonna, era Nan Kempner che non viene fatta entrare alla Côte Basque perché ha uno smoking da uomo di Saint-Laurent – lo so che Lorenzo direbbe che era solo che gli servivano quattro sillabe in più per la metrica, ma invece è come dico io, «porco cane» era sdrammatizzazione calibrata.
Avevo ventun anni e pensavo che quelli di sedici fossero i piccoli, mica sapevo che eravamo coetanei: per secoli, sono stata convinta che quello tra le consumatrici di Venditti e quelle di Cherubini fosse un divario generazionale. C’eravamo noialtre che avevamo esclamato (o pensato in silenzio, onde non farci bocciare) «ma è Venditti», e dieci anni dopo arrivavano quelle che da lì in poi avrebbero detto «ma è Jovanotti». Il futuro era un futuro di terze liceo che a Paolo e Francesca mettono il riempimento automatico: porco cane.
E invece ieri, un attimo prima che mi mettessi a guardare Lorenzo Jovanotti a “Belve”, un’amica mi ha detto che stava facendo sentire “Serenata rap” al figlio, perché a scuola sono appena arrivati al quinto canto dell’Inferno, e se la sente cantata magari la memorizza, e il figlio non aveva mai sentito quella canzone, e sembra ieri che i giovani che ascoltavano roba che i genitori non sapevano eravamo noi, ed è finita come nella canzone di uno di quelli che i nostri vecchi non conoscevano: l’ho visto succedere nelle vite degli altri, e ora succede nella mia. Però – di questo Morrissey aveva trascurato d’avvisarci – a ruoli invertiti.
Lorenzo cent’anni fa mi disse che ormai ai suoi tour ci andavano ragazzi che ai tempi di “Jovanotti for president” non erano neanche nati, figuriamoci ora i liceali che certo non erano nati ai tempi di “Serenata rap”, la canzone di quand’eravamo piccoli che quest’anno ne ha compiuti trenta e come minimo la sera metterà l’antirughe.
E non solo non ascoltano Jovanotti, ma Jovanotti è Tom Waits in confronto a questi che ascoltano oggi, è Leonard Cohen, è Guccini, «Affacciati al balcone, rispondimi al citofono» è Ariosto, «Nei tuoi fianchi son le Alpi, nei tuoi seni Dolomiti» è un sonetto di Shakespeare, «Sono timido, ma l’amore mi dà coraggio per dirti che da quando io ti ho visto è sempre maggio» è all’altezza dell’incipit di “Se telefonando”. E quindi il figlio abituato ai cantanti analfabeti si è messo lì ad ascoltare con la concentrazione che una volta ci voleva per Omero, seguendo il testo, e ha detto alla madre «ma è bellissima», e lei ha borbottato «certo, non quelle merde che ascolti tu».
L’ho un po’ sgridata perché secondo me ci vuole una filologia rispettosa delle nostre biografie e insomma quando tuo figlio col programma arriva a Paolo e Francesca tu devi fargli sentire “Ci vorrebbe un amico”, no “Serenata rap”, ma ormai era andata così, e all’asino che nulla fin lì aveva studiato amore di mamma perdona.
E poi sullo schermo è comparso Lorenzo e io ho pensato che mi sarei distratta, e invece no, perché la Fagnani gli ha chiesto i versi successivi a «amor, ch’a nullo amato amar perdona», e quello non li sapeva, e io dal divano suggerivo come ai compagni di classe ciucci «mi prese del costui piacer sì forte, che, come vedi, ancor non m’abbandona», che poi ai tempi il compagno di classe ciuccio ero sempre io, e invece ora al mio posto c’era uno dentro al televisore, uno che se la cavava dicendo «ma quello è Benigni che li sa a memoria».
Sullo schermo è comparsa la Fagnani che gli ha chiesto dei testi di certi giovani virgulti, con un certo qual fiuto se si pensa che l’intervista l’avevano registrata mercoledì scorso e quindi prima della polemica sul concerto di capodanno al Circo Massimo, e un attimo dopo Lorenzo era lì che diceva che Tony Effe e Mozart fanno lo stesso mestiere, ed è stato in quel momento che l’Italia tutta è stata unita da una nuova preghiera, che più o meno faceva: Wolfgang perdona, porco cane, in questa notte fredda speriamo non ci facciano il titolo.