Una cosa che succede a noi quattro non tifosi di nessuna delle squadre in campo è che prima o poi ci troviamo a dar ragione a tutti. Ieri, per esempio, è stata la giornata che non avrei mai previsto: quella in cui ho dato ragione a Jon Lovett.
Jon Lovett era uno dei ragazzi che lavoravano alla comunicazione di Barack Obama. Nel frattempo non sono più ragazzi, Obama non è più presidente, scopro da Google che Lovett non sta neanche più con Ronan Farrow.
Gli ex ragazzi della via obamiana godono d’un credito che in genere attribuirei alla sindrome Corrado Guzzanti. Ci sono, a volte, talenti così clamorosi che bastano non solo a sé stessi ma anche a procurare una carriera a chiunque entri in contatto con loro. Lovett, come Jon Favreau, viene guardato come un piccolo genio della politica perché ufficialmente autore dei brillantissimi discorsi di Barack Obama, uno che non riuscirebbe a fare un comizio non brillante neanche se glielo scrivesse Angelo Duro, esattamente come Corrado Guzzanti sarebbe risultato un genio con altri conduttori, altri autori, altri capistruttura – ma non viceversa.
Però, forse perché liberati della fedeltà (Kamala mica è Barack), gli ex ragazzi da quando Trump ha vinto ogni tanto ne dicono una giusta, l’ultima l’altra mattina su Msnbc: «Parliamo tanto di disinformazione, ma perché non parliamo d’avere un candidato democratico che faccia lui due ore di conferenza stampa, che sappia parlare con tutti, mescolarsi con tutti, andare da Joe Rogan, che abbia l’aria di uno che è divertente frequentare, che non parli come un comunicato stampa».
Se sei abbastanza non tifosa prima o poi ti tocca dar ragione anche a Zuckerberg che, sempre nell’intervista a Rogan che ho già citato cento volte e citerò probabilmente altre mille, dice che quel che chiamiamo «disinformazione» è la convinzione che gli elettori possano votare un candidato che a noi fa schifo solo se non sono stati accuratamente informati sulle sue malefatte, mica perché le valutano diversamente da noi.
Le correzioni dal basso, le community notes, quelle che su X ci sono già da un po’ e ora su Facebook e Instagram sostituiranno i verificatori di notizie (fact checkers, come li chiamiamo in questo paese che non parla più nessuna lingua), le correzioni dei volontari non possono funzionare, dice in un video su Instagram la comica Michelle Wolf: li avete visti i commenti che lascia la gente sui social? Quella è la stessa gente che dovrebbe correggere i fatti sbagliati.
Che però è, temo, anche la stessa gente che verifica di mestiere, che informa di mestiere, che comunica di mestiere, e che non è più capace di fare quelle due cose che secondo Canetti definivano un intellettuale: essere segugio del proprio tempo, ed essere contro il proprio tempo. Gli intellettuali di questo secolo il loro tempo sanno solo assecondarlo, e questa sì – altro che la disinformazione – è colpa di Zuckerberg e del condizionamento dei like.
Ho visto la sigla di “Splendida Cornice” in cui Geppi Cucciari (la più brava, ché prendersela con gli scarsi è troppo facile), vestita da Village People, canta il suo scherno al nuovo governo americano e al suo aver detto, che cosa terribilmente destrorsa e irrealistica, che i maschi sono maschi e le femmine sono femmine. Il ritornello della sua “YMCA” fa «Guai se sei gay», e immagino sia perché né Geppi né i suoi autori, immersi nel brodo di coltura del presente, si sono fatti venire il dubbio che, prima di ogni altra ragione per cui non essere entusiasti della propaganda trans, c’è che pensare che tu debba cambiare sesso perché ti piacciono le persone del tuo, o i ninnoli di quell’altro, è un’idea omofoba quanto le terapie riparative.
Sempre per stare all’inattendibilità dei bravi, il New York Times dice che Meta, dopo che Zuckerberg ha annunciato che avrebbe reso meno rigide le regole per l’indicibile sui suoi social, ha cancellato dei post di case farmaceutiche su pillole abortive, e quindi non di libera espressione si trattava ma di fare quel che vuole il nuovo governo. È vero? Non è vero? Non lo so, e secondo me non lo sanno neanche loro, perché il problema della tifoseria è che non puoi chiedere a mamma sua di giudicare obiettivamente lo scarrafone.
Quello che è vero, ed è tragico, è che c’è gente che pensa che Instagram sia il luogo giusto dove andare a cercare informazioni su un medicinale. Il nostro Instagram, di noi che siamo state giovani e impressionabili e disinformate sulla contraccezione a fine Novecento, era un giornaletto che si chiamava Cioè. I temi delle rubriche sul sesso erano cose come: è vero che se subito dopo mi faccio il bidet con la Coca Cola non resto incinta? Avevamo dodici anni, e ci faceva ridere. Adesso ne hanno quaranta, e si affidano a test pubblicizzati su social di miliardari sociopatici per diagnosticarsi il cortisolo alto, l’ovaio policistico, il disturbo dell’attenzione.
Il guaio non è che pretendiamo, da miliardari che hanno inventato giocattoloni, che siano responsabili del nostro essere cittadini informati; non è neanche che passiamo le giornate su quei giocattoloni, invece che in una qualsivoglia attività che ci faccia allenare i neuroni; non è neppure che chi fa i giornali sia così terrorizzato di perdere il treno della modernità che il New York Times si sente in obbligo di prendere sul serio le paranoie di chi cerca i medicinali su Instagram e Repubblica si sente sensata a far scrivere articoli culturali a un ventenne che accende la telecamera del telefono per dire a TikTok che ha mandato a memoria le poesie di Leopardi come tutti gli scolari degli ultimi duecento anni.
È tutto un complesso di cose, e la combinazione tra le stesse, che fa sì che non si possa ragionevolmente parlare di disinformazione: se nessuno sa dove finisca il culturale e princìpi il ricreativo, come si fa a sapere qual è l’informazione? Certo, forse è cominciata prima, quando abbiamo scambiato il Gabibbo per un giornalista d’inchiesta, quando gli inviati dei programmi giornalistici hanno iniziato a essere indistinguibili dal Gabibbo. Ma è evidente che coi telefoni in tasca la situazione è precipitata.
Ho ritrovato un’intervista che feci otto anni fa, quando stava lasciando la direzione del Vanity Fair americano, a Graydon Carter. A un certo punto diceva: se ci fosse stata internet, Gutenberg non avrebbe mai inventato la stampa. Saremmo potuti esser scemi qualche secolo più a lungo, che occasione perduta.
Carter è stato forse l’ultimo direttore d’un mondo che non c’è più, in cui i giornali erano rilevanti, facevano la differenza, e l’idea che il giornalista d’un periodico dovesse scrivere «una cosa che l’americano medio legga in una cagata media» era una battuta d’una commedia cinematografica (era rilevante persino il cinema), e non lo stato ordinario delle cose d’un mondo in cui non arriviamo in fondo alle didascalie di Instagram o ai video di TikTok.
Nell’ultimo “Mission:Impossible”, Tom Cruise andava a caccia d’una chiave che nessuno sapeva cosa aprisse, ma si sapeva che serviva ad assumere il controllo d’una cosa chiamata «L’Entità». Il suo capo all’inizio del film gli diceva «Chiunque controlli l’Entità controlla la verità». Sceneggiatore occulto di quel film era probabilmente Elon Musk, col suo «Chi controlla i meme controlla l’universo».
Si può tornare indietro, dall’identità tra meme e informazione, tra meme e verità, tra dopamina da notifiche e raziocinio? Forse no. A un certo punto di “M”, Mussolini si chiede se il re non l’abbia fatto arrestare perché ha pensato «che il male potesse essere la cura? O ha sentito che un’epoca stava finendo ed era inutile opporsi?». L’epoca è finita, credo, poco prima dei social: quando sui siti dei giornali gli articolisti hanno iniziato a chiudere i loro pezzi con «e voi che ne pensate?», perché se tutto quel che il pubblico vuole è ascoltare la propria voce io mi farò cassetta della frutta di Hyde Park: loro si esprimono, e io piglio un sacco di clic.
Mi è tornato in mente Mastroianni che fa il giornalista in “La terrazza”. Ma non quella scena in cui batte a macchina l’articolo, «Il paese è allo sfascio e attende risposte non equivoche», e poi commenta: «Finale di articolo che ho già scritto un centinaio di volte dal 1969». No, un’altra.
Quella scena in cui lascia Carla Gravina dicendo «io credo che le epoche si chiudono così, all’improvviso». Una volta, sarà stato quindici anni fa, con quella battuta intitolai un post su un sito che non esiste più. Nei commenti c’era un pieno di gente che spiegava – a me, ma in realtà a Age&Scarpelli e a Ettore Scola – che lì ci andava il congiuntivo. Erano già le community notes, il mondo era già andato a puttane.