«Non ci si può aspettare che commentiamo purissime fantasie», dice qualcuno di TikTok alla Bbc nell’articolo che appare sul mio computer alle sei di mattina di ieri, di fianco ad articoli uguali e contrari ma più vecchi di qualche ora in cui si dice che, diamine, Elon Musk comprerà TikTok, acciocché gli americani non debbano, diamine, rinunciare ad accendere la telecamera del telefono ed evitare così quelle attività intellettualmente più impegnative che ci hanno infelicitati fino all’arrivo di quei distributori di dopamina che sono i telefoni con la telecamera.
Sempre ieri mattina, su Repubblica c’era una breve intervista ad Annamaria Testa sulla morte di Oliviero Toscani. Intervista che seguiva il principio base delle interviste italiane (fare le domande che ti sei portata da casa, mica chiedere conto di ciò che ti hanno appena risposto), e in cui quindi restava lì, non raccolta da nessuno, una frase piccina picciò che mi ha tormentata tutto il giorno.
Le campagne scandalose di Toscani, le pubblicità che diventavano oggetto di discussioni interminabili, i cartelloni che ancora ricordiamo, tutto quel mondo lì non aveva il portato che aveva perché signora mia le beghine signora mia il politicamente corretto. Ce l’aveva, dice Testa, perché non era ancora andato tutto a puttane. Cioè, lei non lo dice così. Dice che oggi è inimmaginabile che la pubblicità abbia quella centralità culturale.
E io non riesco a decidere se ci si debba sforzare di capire cosa invece abbia centralità culturale oggi, o se sia meglio risparmiare le energie per dedicarsi all’impresa davvero faticosa: quella di capire che la centralità culturale non esiste più.
Una cosa che accomuna Joe Rogan, cioè l’intervistatore di maggior successo al mondo, e i disgraziati che fanno podcast dalle nostre parti è che non sanno niente. Scrivevo giorni fa che l’intervistatore che sgrana gli occhi di fronte a un’informazione che tutti sanno, il giornalista che titola un’intervista a Guccini con «Ho scritto “La locomotiva” in venti minuti», cioè una cosa che Guccini ha detto in alcune migliaia di interviste, quelli lì fanno bene perché nessuno sa niente e se pure sappiamo ci sentiamo rassicurati dalla ripetizione del già noto.
Ma non è solo quello. È che è impossibile sapere le cose, perché per sapere quali cose vadano sapute serve una selezione, e ormai una selezione non c’è. È tutto rumore di fondo, è tutto ciclo di notizie perpetuo da riempire, è tutto titolo su Elon Musk che compra TikTok che, se stai qualche ora sconnessa mica perché sei una grande lavoratrice ma anche solo perché sei a chiacchierare con gli amici, poi quando torni a guardare i giornali trovi le smentite di cose che non hai fatto in tempo ad accorgerti fossero date come vere.
E trovi le smentite se sei fortunata, perché è grandemente possibile che ti appaia invece come primo titolo quello precedente, ed è solo per botta di culo che io leggo che Elon non se lo compra, TikTok, perché potrei invece leggere che se lo compra e andare verso il mio martedì convinta che l’ultima notizia sia quella. E poi chissà, magari invece che non se lo compri è la penultima o terzultima, e da quando io scrivo a quando voi leggete chissà quante volte cambia tutto, chissà quanto rumore di fondo che nessuno filtra, in quel welfare costituito da migliaia di testate che impieghino centinaia di migliaia di derelitti che vogliono poter dire ai genitori che fanno i giornalisti invece di trovarsi un lavoro vero.
Mark Zuckerberg ha detto a Joe Rogan che l’amministrazione Biden aveva ingiunto a Meta di rimuovere come fake news un’immagine in cui, su un DiCaprio preso da “C’era una volta a… Hollywood”, c’era una scritta che diceva qualcosa tipo: questo sei tu tra trent’anni quando scopri che siccome ti sei vaccinato per il Covid hai diritto a un risarcimento.
E Mark e Joe hanno riso, ma era un meme, ma sarete scemi che volete censurare i meme, e io ho riso, poi m’è venuto in mente che uno dei pochi uomini intelligenti che conosco mi dice sempre «Ricordati che ha ragione Elon Musk: chi controlla i meme controlla il mondo», e io non sono sicura che sia vero, credo che il mondo sia troppo sbriciolato per controllarlo («il sistema della comunicazione si è polverizzato», dice sempre Annamaria Testa sempre in quell’intervista), epperò.
Epperò lo sappiamo tutti che il problema non è che il cittadino medio non ha gli strumenti culturali per distinguere tra un meme e un telegiornale, tra un comico e un legislatore, tra uno che ti dice «ma sarai scemo» e uno che vuol toglierti il diritto alla scemenza. Certo che non ce li ha, gli strumenti, ma non è mica quello, il problema: il problema è che non gliene frega niente.
Non gliene frega niente di distinguere, non gliene frega niente della verità, non gliene frega niente dei fatti, non gliene frega niente delle notizie. Gli frega solo della dopamina, solo di ascoltare la sua stessa voce mentre dice che lo scandaletto del giorno è una vergogna, è una vergogna che Elon compri il social cinese, è una vergogna che Elon non lo compri e quindi gli americani lo vietino, è una vergogna che m’impediscano di accendere la telecamera e dire la mia, è una vergogna che la mia squadra abbia perso, è una vergogna che comprare una casa costi di più che ai tempi di mia nonna, è una vergogna che RyanAir mi porti dall’altra parte del mondo alla cifra con cui mia nonna andava in un altro quartiere in taxi ma lo faccia senza comodità, è una vergogna che un commentatore di Instagram abbia detto a Brooke Shields che la vorrebbe ancora giovane e bella, è una vergogna che Helena Christensen compaia sul mio Instagram identica spiccicata a quand’era giovane epperciò complessandomi vieppiù, è una vergogna.
Sull’ultimo numero del New York Magazine c’è un lungo articolo su Neil Gaiman, scrittore inglese accusato di turpitudini sessuali, e l’articolo comincia come comincia il post che lo presenta su Instagram: «Nota di redazione: questa storia ha contenuti che i lettori potrebbero trovare disturbanti, incluse vivide accuse di violenza sessuale», e io lo so cosa state pensando, perché sono quella alla quale Patty Pravo direbbe «eri come loro, te».
Anch’io come voi tendo a pensare che siamo diventati tutti scemi, che ora stai a vedere che i giornali si devono scusare di contenere brandelli di realtà, che abbiamo iniziato con gli avvisi a inizio visione che “Via col vento” non fosse un realistico documentario sullo schiavismo e le sue brutture, e ora eccoci qui, a dire in cima a un articolo su delle accuse di violenza sessuale che, ehi, state attenti, questo articolo parla di ciò di cui parla.
Ma il fatto è che non esistono più i lettori: esiste gente cui passa davanti per caso qualcosa scrollando il telefono al cesso, non gente che ha scelto i tuoi codici conoscendoli. La scena che fa più ridere in “Diamanti” è quella in cui venti attrici stanno in silenzio da biblioteca novecentesca attorno al tavolo di Özpetek a leggere i copioni con un’attenzione da bambini che leggevano con la torcia nascosti sotto le coperte perché i romanzi erano tutto l’intrattenimento che avevano.
Ce le vedi, nel secolo della dopamina e dei messaggi vocali ascoltati a velocità doppia perché è intollerabile pensare di dedicare troppi secondi alla voce di qualcun altro quando potrei dire qualcosa con la mia compiacendomene, ce le vedi delle attrici che leggono un copione per intero, senza saltare alle parti che le riguardano?
I genitori usano i figli come specchio narcisistico, ha detto Julio Velasco in una bella intervista che gli ha fatto Valentina Desalvo all’inizio dell’anno, ed era vero ma era parziale per troppo ottimismo: tutti usiamo tutto come specchio narcisistico, il mondo è una gigantesca stanza degli specchi, e comprare o non comprare TikTok per Musk, censurare o non censurare i meme per Zuckerberg, mettere o non mettere un cuoricino a Toscani o a Rogan o a Brooke Shields o a Helena Christensen per noi, sono tutti frammenti della stessa stanza degli specchi, in cui non esiste un romanzo di cui parlare a cena giacché tutti i commensali lo stanno leggendo, e non esiste un po’ perché dal rumore di fondo è difficile setacciare qualcosa su cui valga la pena concentrarsi, ma molto perché siamo così fuori di testa che ognuno di noi pensa d’essere lui, la centralità culturale.