Il peso dell’un per centoI privilegi climatici amplificati dagli incendi in California

Da una parte i ricchi che scappano dalle fiamme sui loro jet privati o assumono vigili del fuoco privati, dall’altra le minoranze dimenticate dai soccorsi e i pompieri-detenuti sottopagati. La tragedia di Los Angeles è la fotografia perfetta delle disuguaglianze ai tempi del riscaldamento globale (e della fragilità della filantropia climatica)

AP Photo/LaPresse

Dalla newsletter settimanale di Greenkiesta (ci si iscrive qui) – Quante cose avete fatto nei primi dieci giorni del 2025? Secondo un nuovo report di Oxfam, l’un per cento più ricco della popolazione mondiale ha esagerato al punto da emettere l’intera quantità di CO2 che avrebbe dovuto produrre nell’arco dei dodici mesi. In una settimana e poco più, settantasette milioni di persone (quelle che guadagnano più di centoquarantamila dollari l’anno) hanno esaurito il loro “budget di carbonio” del 2025, emettendo mediamente 2,1 tonnellate di CO2 a testa. Un cittadino in difficoltà economiche, appartenente al cinquanta per cento degli individui più poveri al mondo, impiegherebbe tre anni per generare la stessa quantità di gas serra.

Dentro quell’un per cento c’è probabilmente qualche star di Hollywood che in questi giorni ha visto bruciare la sua villa di Los Angeles a causa degli incendi, mai così rapidi e indomabili nel sud della California (il cambiamento climatico, tra siccità e temperature elevate, ha avuto un ruolo chiave), che hanno riacceso il dibattito attorno alle disuguaglianze ai tempi del riscaldamento globale. «Sono disposto a pagare qualsiasi cifra», ha scritto su X tale Keith Wasserman, imprenditore nel settore immobiliare alla ricerca di un servizio di pompieri a pagamento per salvare la sua casa di Pacific Palisades, uno dei quartieri dei Vip di Los Angeles.

In città stanno aumentando vertiginosamente le richieste di questi servizi da parte dei membri dell’élite economica losangelina. Le loro ville sono sempre più oasi verdi nel deserto: il sud della California ha raccolto quattro millimetri di pioggia da maggio a oggi. L’intervento dei pompieri privati, di solito, arriva a costare circa mille dollari, ma in questi giorni i costi hanno raggiunto i cinquemila dollari. Secondo i quotidiani americani, qualcuno si è offerto di staccare assegni da centomila dollari, che è più o meno la cifra necessaria per installare gli idranti professionali privati, anch’essi gettonatissimi da quando sono scoppiati gli incendi. 

Ma le fiamme non stanno colpendo solo i quartieri ricchi di Los Angeles, una delle metropoli più diseguali del mondo occidentale, nonché l’epicentro di quella che negli Usa chiamano “crisi dei senzatetto”. Nella città di Hollywood, di Venice Beach, dei Lakers e degli osservatori astronomici, il 14,2 per cento della popolazione vive in stato di povertà. «Mica possiamo permetterci di trasferirci nella nostra seconda casa», racconta Samantha Santoro, studentessa universitaria figlia di due immigrati messicani, all’Associated Press. 

Samantha vive, anzi viveva, ad Altadena, cittadina alle porte di Los Angeles ridotta letteralmente in macerie dall’incendio Eaton (arginato al trentacinque per cento). Qui, poco meno del cinquanta per cento della popolazione è rappresentato da ispanici e neri. Qui, sostengono i residenti, i soccorsi non sono stati tempestivi come nei dintorni di Hollywood. Qui, nessuno può permettersi di pagare migliaia di dollari per un pompiere privato. Non a caso, scrive il Los Angeles Times, il maggior numero di morti si è verificato ad Altadena (diciassette su venticinque). 

E poi ci sono i pompieri che stanno rischiando la vita per spegnere le fiamme alimentate dai venti Santa Ana, provenienti dalle aree desertiche dello Stato. Secondo la Bbc, quasi mille vigili del fuoco impiegati nell’emergenza – non ancora rientrata – sono detenuti in permesso di lavoro, nettamente sottopagati rispetto ai colleghi. Un pompiere carcerato riceve dallo Stato una paga giornaliera che oscilla tra i 5,80 e i 10,24 dollari, mentre il classico firefighter californiano può arrivare a percepire più di centomila dollari l’anno. 

Gli incendi in California ci insegnano che la crisi climatica è fatta di abitudini da stravolgere e privilegi da scardinare, ma che alla fine tutti sono costretti a pagare il conto. «È come se in questo caso i migranti climatici fossero i ricchi», abbiamo scritto qualche giorno in un articolo su Linkiesta: è impressionante, sotto certi aspetti, vedere un attore di L.A. abbandonare casa propria in lacrime a causa di un evento alimentato dal cambiamento climatico. Siamo nel cuore dell’emergenza più pervasiva di sempre, i cui effetti sono drammaticamente democratici. E il dolore va compreso e rispettato, sempre, in ogni sua forma.

Quella climatica, tuttavia, è anche un’emergenza che moltiplica, ingigantisce e fa esplodere a catena delle minacce già esistenti, che siano latenti o meno. Ed è per questo che, quando le fiamme si placheranno del tutto, i ricchi saranno ancora ricchi (anche merito delle loro assicurazioni contro i disastri naturali) e i poveri sempre più poveri. Il cambiamento climatico è a tutti gli effetti una questione di classe. 

Sono tanti i miliardari che manifestano la loro sensibilità ambientale attraverso post sui social e donazioni a più zeri. Ma quanti di loro sarebbero disposti a rinunciare alle proprie comodità per il bene della Terra? Pochi, pochissimi, a giudicare da come il concetto di privilegio sia assente dal dibattito mainstream sul riscaldamento globale. Davanti alle tragedie come gli incendi di Los Angeles si sgretola l’illusione della filantropia “verde”, incapace di andare alla radice del problema e di intervenire su due livelli fondamentali: le necessità di consumare meno – mettendo in discussione il paradigma dominante – e di colmare le disuguaglianze sociali. 

Leonardo DiCaprio è una delle star hollywoodiane più sensibili alle questioni ecologiche, il suo profilo Instagram sembra quello di un attivista ambientale con un abile social media manager alle spalle. L’attore ha prodotto e interpretato il documentario “Punto di non ritorno” (in cui DiCaprio, tra gli altri, intervista Elon Musk in una delle gigafactory di Tesla), è il “messaggero di pace per il clima” delle Nazioni unite (qualsiasi cosa significhi), ha donato milioni e milioni di dollari al Wwf, ha partecipato alle Conferenze delle parti (Cop) sul clima e tenuto decine di discorsi pubblici sull’argomento. Ma è fuggito dagli incendi di Los Angeles su un jet privato diretto a Cabo San Lucas, scintillante località balneare messicana. 

La filantropia climatica, insomma, è una soluzione poco strutturale, che spesso flirta con il greenwashing. Secondo Oxfam, bisogna ridurre le emissioni attraverso una «nuova e permanente» tassazione sul reddito e sul patrimonio dell’un per cento dei più ricchi del Pianeta: una proposta che raccoglierebbe oltre 1,7mila miliardi di dollari l’anno da destinare alla finanza climatica, tema cardine della Cop29 di Baku, terminata con un compromesso lontanissimo dalle richieste dei Paesi in via di sviluppo. 

Un’idea simile – tassa del due per cento sul patrimonio degli “ultra ricchi” (tremila miliardari nel mondo) e Global minimum tax per le multinazionali dal quindici al diciotto per cento – è stata portata dal presidente brasiliano Lula sul tavolo del G20 dei leader a Rio, ma senza risultati concreti: le proposte per un’imposta minima globale, sostenute anche da Colombia, Francia, Sudafrica, Spagna e Unione Africana, sono state affossate soprattutto dagli Usa e della Germania. Di recente, anche l’ex commissario Ue Frans Timmermans, padre del Green deal e leader della coalizione olandese tra Sinistra Verde e Partito del Lavoro, è tornato a parlare della necessità di una riforma del sistema fiscale, con i ricchi che «devono pagare di più». Una dichiarazione rilasciata al Financial Times, non al quotidiano di un partito di estrema sinistra. La lotta alla crisi climatica è fatta anche di tabù da sfatare.

X