La collina dei famosiChe fare se brucia la casa, e altre storie di star che ci turbano più dei poricristi

Riempire una valigia zebrata da tenere sulla porta per fuggire in caso d’incendio, come a Los Angeles, e chiedersi che cosa vale la pena salvare dall’entropia della propria abitazione

«Mi sono accorta che non sapevo dire quali fossero, in casa mia, le cose di valore». Lo dice Meghan Daum, intellettuale americana autrice d’un libro bellissimo (“The problem with everything”) che qui nessuno s’è preso la briga di tradurre, nel podcast in cui racconta che casa sua è stata rasa al suolo dalle fiamme.

Ho dato settanta euro al suo podcast come non so neanche cosa – opzione su un anno in cui troverò il tempo di ascoltare i podcast, o gesto solidale? – e l’ho fatto sentendomi un po’ scema. Poi mi sono ricordata che un uomo intelligente aveva pubblicato uno di quegli affari dell’Instagram, #freeCeciliaSala, io gli avevo chiesto se si fosse rincoglionito, e lui mi aveva risposto: ogni tanto si fanno anche cose di pancia.

Le polemiche sugli incendi in California e le case dei ricchi sono prevedibili e stolide quanto lo erano quelle «vi preoccupate dei miliardari nel sottomarino e non dei profughi lasciati affogare ogni giorno»: cosa dite «storytelling» ogni due minuti a fare, se poi non avete ancora capito che, se Ulisse fosse stato scapolo, ce ne sarebbe fregato meno delle difficoltà che incontrava per tornare a casa.

Certo che se brucia il luogo che ha prodotto tutto o quasi l’immaginario occidentale degli ultimi cento anni ci fa più impressione, ma è pure vero che il fuoco fa impressione per la ragione che ha messo perfettamente a fuoco (scusate) Daum: quali sono le cose preziose?

Per me, che se arrivo in ritardo chi mi conosce sa già che è perché ci sto mettendo ore a ritrovare cose che uso ogni minuto – il caricabatterie del telefono, o gli occhiali, o la carta di credito – per me l’idea di dover decidere cosa salvare da un incendio è una missione impossibile.

John Mayer, che ha le idee chiarissime (un segnale sempre allarmante), venerdì ha postato la foto d’una busta dicendo che dentro ci sono le foto di suo padre, «L’unica prova della sua vita che esisterà nel tempo». Secondo John Mayer, dunque, chi è morto prima che l’umanità cominciasse a fotografarsi non è mai vissuto.

L’ha postata per dire che queste sono le cose che salvano le persone dagli incendi, lui che ha le idee molto più chiare delle mie e di quelle di Meghan, e non sarò certo io a dire che le memorie autobiografiche non valgono niente, io che mi ci guadagno da vivere, ma non sono certissima che quella scatola in un angolo dello studio, quella in cui ci sono un po’ di foto e di lettere, quella vicina alla Wink di Cassina, che quella sarebbe il mio primo salvataggio da un incendio.

E perché non il golfino preferito – che però ragionevolmente non saprei dov’è se l’incendio arrivasse d’estate – e perché non il computer con dentro le stesure di roba non ancora pubblicata – e che non ho salvato da nessun’altra parte perché sono troppo anziana per la cloud – e perché non le prime edizioni di certi romanzi senza i quali non sarei stata la stessa. E perché non proprio la Wink, che certo sarebbe difficile portare a spalla di corsa giù per le scale ma se va a fuoco non ce l’avrò mai più.

L’unica ragione sensata per salvare la scatola delle foto è che so dov’è e ci metterei quindi un ventesimo del tempo a prenderla e uscire non ustionata rispetto alle ricerche che dovrei fare di qualunque altro oggetto (casa mia non è in disordine: «entropia» è una definizione più accurata).

Ma la ragione per cui so dov’è è che non la sposto mai, non la apro mai, non me ne interesso mai. L’ho creata durante l’ultimo trasloco, il penultimo era di diciassette anni fa e c’erano ancora scatoloni intonsi di foto e ritagli e fatture e carta di varia provenienza. Ho deciso che avrei selezionato tutto e ritrovato un paio di foto d’infanzia cui tenevo e che dovevano per forza essere lì.

Dopo due scatoloni mi sono scocciata, o come direbbero in questo secolo ero in sovraccarico emotivo, non avevo ritrovato ciò che cercavo ma altre foto di cui non avevo alcun ricordo, e lettere di disamore che avevo rimosso, e una sentenza di condanna per aver detto a una vigilessa romana «ma lei che cazzo vuole da me» (un tribunale si è occupato di questa gravissima vicenda, io per fortuna ancora non lavoravo ma ecco, se siete contribuenti d’abbastanza lungo corso: l’ha fatto con le vostre tasse), e quindi nella scatola quello c’è: ricordi che m’ero dimenticata di ricordare finché non li ho selezionati, e che ho dimenticato di nuovo un attimo dopo averli messi via come preziosi.

Nel più orrendo e più colmo di spirito del tempo sceneggiato degli ultimi anni, “This is us”, i tre figli mitizzano la figura del padre morto. Padre che, in ogni flashback, sembra un pirla qualunque. Per una stagione e mezza il pubblico non sa come sia morto, poi – in una puntata che fa piangere tantissimo il pubblico senza pensieri di questo secolo e fa alzare gli occhi al cielo ai pochi normali rimasti – si svela che è morto nell’incendio di casa. Dal quale era comodamente in salvo, senonché, essendo pirla, è tornato dentro a riprendere il cane.

Anche Daum ha un cane e ci ha rassicurati sul suo benessere, ma non è sul rapporto bislacco degli umani di questo secolo con gli animali domestici che voglio soffermarmi. Gli attori che in “This is us” fanno il padre e la madre hanno in questi giorni avuto entrambi le case incendiate (c’è più trama in un fatto di cronaca che in sei stagioni di sceneggiato), e lo sappiamo perché gli incendi in California hanno portato due ordini di sconvolgimenti nel giornalismo americano.

Il primo è che la California è più al centro dell’attenzione di New York: lì sono furibondi perché c’è un nuovo pedaggio per usare le macchina in certe zone di Manhattan, e una volta la loro furia (e la nostra scoperta che c’è qualche residente di Manhattan che usa la macchina) sarebbe stata il principale pensiero dei giornali americani (e quindi anche dei nostri, che non è che pratichino l’originalità nella copertura dei fatti d’America).

Il secondo è che la fuga da un incendio è forse l’unico caso in cui le celebrità di quest’epoca non si fanno da fotografo personale, non si autoscattano, non s’instagrammano (tranne casi come Paris Hilton che instagramma da altrove d’essere sul divano a guardare la sua casa di Malibu rasa al suolo dalle fiamme in diretta televisiva).

Il secondo ordine rivoluzionario è: sono tornati i paparazzi. Quelli che fotografano Ben Affleck che fugge dall’incendio suo e va a casa dell’ex moglie non ancora evacuata, quelli che fotografano gli attori di “This is us”, lui che dice che la vita imita l’arte, entrambi che dicono che l’importante è che stiano bene i congiunti e il cane – certo che dagli incendi sono scappati ognuno col suo bravo cane, Woody Allen lo spiegava decenni fa: la vita non imita l’arte, imita la brutta televisione. Mentre scrivo, il Los Angeles Times ha come secondo articolo dell’homepage la veterinaria che ha salvato dall’incendio quaranta animali domestici.

Il New York Magazine ne fa parlare alcuni, di paparazzi: il mio preferito è quello che dice che lui col cazzo che va in mezzo agli incendi, a quella «apocazzolisse», e per cosa, per un Pulitzer? Sospetto che, nell’epoca delle relazioni parasociali, le foto delle case incendiate di Mel Gibson o James Woods (orridi destrorsi di cui i moralizzatori social si affrettano a dire che ben gli sta) prenderanno più clic degli incendi che hanno lasciato senza casa Billy Crystal o Jeff Bridges, cui tutti vogliono bene: le foto dei benvoluti hanno minor valore di mercato, chi te lo fa fare di affrontare il fuoco per ottenerle. 

Mi chiedo quanto valga la foto di Jamie Lee Curtis – che ha ben pensato, alla conferenza stampa d’un film, di dire che tutta la sua zona non esiste più, tutto distrutto dalle fiamme, «sembra Gaza»: prevarrà la mozione «come ti permetti il genocidioooo» o quella per cui, viste le tette che aveva in “Una poltrona per due”, JLC ha un bonus per dire qualunque enormità?

La differenza tra una disgrazia che riguarda dei poricristi qualunque e una che riguarda i ricchi e famosi che fanno parte del nostro immaginario è sempre quella: l’illusione che ci riguardi almeno un po’ ciò che accade a quelli di cui abbiamo il poster in camera (o il libro sullo scaffale, o il film tra i preferiti).

Per dire: Alanis Morissette ha instagrammato un quadro che aveva commissionato e le era stato consegnato due giorni prima degli incendi, un quadro che ritraeva quella zona, casa sua e quelle dei suoi amici, ora tutte bruciate. E io il quadro l’ho visto solo perché il post di Alanis l’ha condiviso una delle figlie di Jack Nicholson. Credevo d’aver capito molto delle relazioni parasociali, ma non avevo ancora visto le vite dei miei poster andare a fuoco. 

E quindi io, che non avevo finora gli incendi nell’elenco delle paure, paure che spaziano da quella che mi caschi addosso qualcuno sulle scale mobili a quella che si apra una grata nel marciapiedi su cui sto camminando, ora ho paura anche che vada a fuoco casa, nonostante viva a diecimila chilometri da Malibu. 

E quindi ora prendo la valigia più grande che ho e la metto nell’ingresso, pronta per fuggire da un incendio, per non farmi sorprendere dagli eventi a sorpresa, come le gravide che tengono la borsa per l’ospedale pronta per il momento in cui si rompono le acque. Solo che, in questa gigantesca valigia zebrata che non uso da almeno vent’anni di bagaglio a mano, non so quale «roba mia, vientene con me» mettere: altro che «chi butteresti dalla torre», la decisione più difficile da prendere è quali siano le cose di valore in casa propria. 

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