Quale allegriaLa mia prima cotta nel giornalismo anglofono, e l’articolo più straziante che leggerete quest’inverno

L’opinionista geniale Julie Burchill ha raccontato che non camminerà mai più. Dopo averla letta, ho trovato conferma a due incrollabili certezze: i buoni propositi non hanno senso e lei è il dio del fraseggio

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Nell’ampio faldone degli spunti che metto da parte pensando «magari di questo poi scrivo», e poi il «magari» diventa un «mai», ci sono vari articoli che avevo conservato sui propositi di inizio anno, un genere che mi affascina perché tutti i modi in cui gli esseri umani se la raccontano secondo me andrebbero studiati.

Non ho mai fatto un proposito d’inizio anno, ma fino a una certa età ho messo con zelo mutande rosse la sera di capodanno, e quindi chi sono io per irridere quel che funziona per altri: se ti fa sentire meglio giurare che quest’anno non pagherai a vuoto l’abbonamento alla palestra, buon per te.

L’articolo più straziante che leggerete quest’inverno è un articolo allegro, perché è sempre così: è solo quando piangendo ti viene da ridere che il prodotto culturale che stai consumando vale qualcosa. L’articolo più straziante che leggerete quest’inverno ha un titolo incontrovertibile: “Ho davanti un futuro in sedia a rotelle – Un addio alle mie (bellissime) gambe”.

Ieri qualcuno mi ha mandato un’intervista televisiva in cui l’intervistatrice chiedeva a Taylor Swift se lei fosse il tipo che si preoccupa, e lei rispondeva con una lista di preoccupazioni che includeva persino in che scuola mandare i figli che ancora neppure ha. La persona che me l’ha mandata mi ha scritto «Sembri tu quando ti parlo dei miei problemi, solo che tu non sei pagata per ascoltare». Questo per dire quanti sono i casi in cui mi metto a leggere l’articolo su una che è rimasta paralizzata. Uno solo: quello in cui quell’articolo lo scrive Julie Burchill.

È probabile che non sappiate chi sia Julie Burchill, forse la mia prima cotta nel giornalismo anglofono, quando io i giornali sì e no li leggevo e lei li scriveva già da una vita (cominciò a diciassette anni su una rivista musicale: erano gli anni Settanta, esistevano le riviste musicali). Mi affascinava tutto di lei: che avesse sfasciato sodalizi culturali mettendosi prima con un amico e poi con l’altro, che ogni volta che mollava un marito lasciasse il figlio col padre, che si permettesse d’ingrassare in anni in cui essere magre ci sembrava la cosa più importante del mondo (se hai i vent’anni che avevo io allora ti sembrerà ancora la cosa più importante del mondo – di che altro deve importarti, a vent’anni? – ma non potrai ammetterlo: noialtre non eravamo state così sceme da inventarci la fine degli standard estetici).

Ma, soprattutto, Burchill era un dio del fraseggio, il che per me era stato – lo è ancora – sempre molto più importante di cosa qualcuno pensi. Mi sembra inconcepibile che ci siano lettori cui importa da che parte si sta su un qualche tema e non come si articola il proprio starci. Preferisco un nazista dell’Illinois che sa posizionare un aggettivo a qualcuno con tutte le idee giuste che scrive una frase sciatta.

Nei trentacinque anni in cui l’ho letta, Burchill non ha mai smesso d’essere stronza, non ha mai smesso d’essere brillante, non ha mai smesso d’essere dispettosa e non ha mai smesso d’essere un dio del fraseggio.

Ha smesso (da moltissimo tempo) di scrivere sul giornale sul quale la leggevo quand’ero giovane, il Guardian, ma quello era inevitabile, con la deriva beghina che ha preso la sinistra in questo secolo (scrive su testate che senza di lei io non aprirei mai, come lo Spectator o Spiked o UnHerd o The i Paper, ma per fortuna le testate hanno smesso di contare qualcosa).

Ha smesso di piangersi addosso: passò il suo ventesimo compleanno chiusa in bagno a frignare perché era editorialista di punta da quando ne aveva diciassette e la sua vita poteva solo peggiorare, ma poi s’invecchia e cala la capacità di drammatizzare le stronzate (non per tutte, certo: esistono anche le sceme).

Ha smesso di drogarsi abbastanza da stare nel totomorto in cui era una presenza stabile all’inizio di questo secolo.

È andata a vivere a Brighton, ha un marito (il terzo) più giovane di lei, uno dei suoi figli si è suicidato (e lei ha smesso di mangiare e la gente le diceva «come stai bene, complimenti!»), è convinta che il capitalismo degli anni Ottanta fosse più onesto di quest’epoca in cui le multinazionali fingono d’avere a cuore la tua sensibilità (come darle torto), e che gli anni Settanta fossero impagabili per avviare la vita che ha avuto lei: «Ho vissuto l’ultima grande epoca giornalistica di libera espressione e soldi facili».

Poi, a sessantacinque anni, due settimane prima di Natale la ricoverano d’urgenza (più abile di Cecilia Sala a scansare le festività): le è venuto un ascesso alla colonna vertebrale, che non so neanche bene cosa sia, la operano e le dicono che probabilmente non camminerà mai più. «Un po’ di sfiga», le dice il medico. E lei – invece di chiamare due picchiatori per il medico e un Cappato per sé – scrive una serie di pezzi che sono più pieni di vita di quelli di noialtri che non abbiamo appena ricevuto una diagnosi terrificante.

«Ci sono quattro donne nel mio reparto: in tre siamo immobilizzate a letto, una cammina. Una mattina quest’ultima decide di mettere Céline Dion a tutto volume, niente meno che “Falling into you” a ripetizione, che come scelta di canzone mi sembra anche indelicata. Do di matto, e rispondo col “Flauto magico” su Radio3, per l’orrore dell’intero reparto, me compresa. Poi iniziano le urla, roba da “EastEnders” [una soap d’ambientazione proletaria, ndS], “Piantala!” “No, piantala tu!”. Vengo accusata di “tentare di prendere il controllo del reparto”, il che mi pare appassionante e machiavellico. Avevo già la vaga sensazione che leggere libri e ascoltare dibattiti politici alla radio mi rendesse strana – ma ho scelto da ragazzina le mie armi, quelle che erano in grado di aiutarmi a sfondare gli angusti confini stabiliti per le donne della classe operaia, e non sono disposta a deporle».

E questo cosa c’entra coi buoni propositi, diranno gli eroici lettori che ancora si ricordano da dove fossi partita cento righe fa. In uno di questi articoli dopo la diagnosi, Burchill scrive che i buoni propositi del secolo scorso che ora risulterebbero troppo aggressivi erano roba come «scrivere un romanzo, smettere di fumare, diventare ricca o morire nel tentativo di arricchirsi». Ma che se c’è una cosa che non puoi non aver imparato a sessantacinque anni è che ripromettersi di non far più qualche sciocchezza che sei solito fare non è sensato.

Tuttavia lei davvero quest’anno non camminerà più, e quindi dovrebbe avere qualche rimpianto, e invece niente (qui noi anziane pensiamo a Edith Piaf, e il disastroso pubblico di questo secolo a Max Pezzali). Avrei potuto fare questo e quello, elenca Burchill, per poi aggiungere: ma in effetti l’ho fatto. Stare con la persona che amo, nuotare nel mare gelido, essere grata della vita meravigliosa che avevo e che pensavo avrei avuto per sempre.

A Burchill fanno schifo quanto a me i propositi d’inizio anno pubblicati dai giornali che ti incitano col nuovo anno a essere una persona nuova, però adesso «voi bipedi mi sembrate meravigliosi», e insomma mica è male poter camminare (nel mio diario dei «quando ti dice culo, facci caso», stasera annoto che ancora non sono rimasta paralizzata, nonostante il mal di schiena perpetuo e nonostante – come la Burchill di prima dell’ascesso, quando camminare non le pareva un privilegio pazzeschissimo – mi rifaccia alla regola di Winston Churchill: mai stare in piedi se puoi sederti, mai sederti se puoi stare stesa).

Burchill sa che il pezzo automatico di buoni consigli per l’anno nuovo è una sciatteria dei giornali, e sa che i giornali, proprio come le sue gambe, non sono più quelli d’un tempo. Ricopio – non vedo perché dirlo peggio con parole mie – da una Burchill d’un paio d’anni fa.

«La cosa migliore dei vecchi tempi era che potevi scrivere qualunque cosa. Se qualcuno diceva “Mi sono offeso” era l’inizio dei giri di giostra, mica la fine. “Scandalizzare è un diritto, essere scandalizzati un piacere”, come diceva Pasolini. A causa di quegli specchi deformanti che sono i social, ora è tutto finito. Anche i giornali più tromboni si piegheranno alla pressione della potente petulanza della brigata social. Odierei dover cominciare una carriera nel giornalismo oggigiorno: senza soldi, senza meritocrazia, senza divertimento».

Burchill lo scriveva quando non era ancora senza gambe, ma sono abbastanza certa che lo scriverebbe uguale adesso, in quest’anno orribile che riesce ad affrontare col solito impeccabile fraseggio.

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