Non vi racconterò di quel sacchetto di cipolle marcite fino a liquefarsi in una borsa di Hermès. Non ve la racconterò non perché sia una storia troppo sputtanante persino per me che pure scrivo praticamente solo per sputtanarmi.
Non ve la racconterò perché c’è una editor che da anni mi chiede di scrivere un libro sul mio disordine, e se poi un giorno decido di farlo mica posso essermi già giocata le storie migliori.
E che cosa ci sarà mai da dire del disordine, si chiederanno i disordinati dilettanti, quelli che nei film vengono rappresentati da gente che, all’arrivo d’una visita imprevista, si scusa moltissimo perché sui divani ci sono un cartone di pizza, un reggiseno, due giornali, una mezza dozzina di bottiglie di birra (in genere il regista sta tentando di dirci che il protagonista è molto depresso: si sa che se sei allegro la prima cosa che fai è la raccolta del vetro).
Il disordine che dico io somiglia più alla distruzione creatrice di Schumpeter. E questo è il punto dell’articolo in cui i lettori si dividono in tre. Quelli che si sentono intelligentissimi perché hanno dato almeno un esame d’economia e sanno che Schumpeter non è un campione d’automobilismo. Quelli che mi notificano scocciati che dei miei articoli non si capisce niente e devo smetterla coi riferimenti oscuri per sembrare colta (stavolta non avrebbero neanche tuttissimi i torti, il problema è che fanno la stessa obiezione quando citi Alberto Sordi). E quelli che mi spiegano che io di economia non capisco niente.
È per convincere questi ultimi che sono qui a parlarvi della mia settimana ordinata. È successo dopo le cipolle nella borsa di Hermès, e dopo i pomodori datterini sugli Adelphi (un’altra vicenda che vi venderò nei prossimi anni, non siate avidi).
Un giorno ho deciso che non potevo continuare così. A far marcire in frigo spese ordinate con tanta cura e buone intenzioni e che poi, il giorno di consegna, guardavo con raccapriccio pensando: ma che è ’sta roba, ora mi ordino un cheeseburger.
Una mattina è arrivata la spesa, e io ho deciso che, brava economa nonché donna da sposare, non avrei più investito un centesimo in alimentari finché non l’avessi finita.
Innanzitutto, i lati positivi: è la scusa perfetta. Non è che non possa venire a cena con te perché ogni volta mi parli di quanto vali e meriti e quanto gli altri sono tutti raccomandati e io ogni volta rischi il decesso per noia: non posso venire a cena con te perché devo finire quel che ho in frigo. No che non posso invitarti a nutrirti delle mie derrate, nell’ingresso ci sono valigie non disfatte di viaggi del 2018, scatoloni di editori che pubblicano tomi sul futuro del pianeta ma intanto usano un contenitore d’un metro cubo per mandarti un libro, sacchi di roba da portare al lavasecco da sette cambi di stagione fa: mica vorrai scavalcare tutto ciò rischiando d’inciampare.
Poi, posso sentirmi finalmente come la mia amica a costo zero. Quella che ammiro da anni perché le fragole ammuffite invece di buttarle le tagliuzza salvandone le parti sane (credo faccia qualcosa anche coi tocchi ammuffiti, non ho mai osato chiedere), quella che quasi non produce rifiuti perché riutilizza tutto, quella alla quale in questo bordello permanente in cui vivo prenderebbe una sincope. Lei una vita senza comprare niente, io una settimana e già smanio: dov’è il reality sul mio eroismo?
Lo so che state aspettando il lato oscuro. Il difetto fatale. Il momento in cui l’eroina vede andare a puttane il suo piano perfetto. Esso arriva subito, contrariamente a tutte le indicazioni dei manuali di sceneggiatura.
Intanto, la pianificazione settimanale prevede un ordine del frigorifero. Che non vuol dire solo buttare quella mostarda aperta dal 2012 acciocché non ti distragga quando devi prendere il pranzo dal ripiano.
Vuol dire anche – soprattutto – disfare e riporre nei posti giusti la spesa appena arriva. Se, come me, sei un’abitudinaria, è una scelta che prevede dolorose rinunce. La rinuncia a dire «sì vabbè, lo faccio poi»; la rinuncia a lasciare il latte nell’ingresso così a lungo che quando te ne ricordi è diventato ricotta; la rinuncia a dimenticare le uova nel sacchetto abbastanza da trovare ragionevole che ne escano dei pulcini (che nel corso dell’estate non sia mai successo è invero inspiegabile, mica faceva meno caldo d’una covata).
Poi, il guaio sono le scadenze. Nel momento in cui pianifichi una settimana di pasti, devi rinunciare a mangiare quel che ti va. Sì, hai ordinato tutta roba che ti piace moltissimo, ma mica è detto che quella specifica cosa ti piaccia quel giorno lì. Ti va il pecorino? Non puoi: la burrata scade domani.
E, quel che è peggio, devi decidere tutto appena arriva la consegna, altrimenti rischi di dimenticare le tue priorità.
Quando gli alimenti arrivano, li dividi per scadenze, e metti più in alto nel frigo quelli che scadono prima, così li vedi quando apri la porta chiedendoti «e oggi che mi mangio di bello» e sai che devi nutrirti di quelli. Praticamente è come essere in collegio, coi menu imposti – e dal collegio mi cacciarono quasi subito (un’altra storia che chissà quando vi rivenderò).
Mi dicono che c’è gente che vive normalmente così. Che non fa marcire la roba che compra, che guarda abitualmente le scadenze, che non riempie il frigo subito prima di dire «ma figuriamoci se scomodo una pentola» e ordinarsi un sushi. Ci credo, li ho letti i poeti, lo so che la maggior parte degli uomini vivono vite di silenziosa disperazione (oggi i poeti dovrebbero dire: le donne e gli uomini).
Ma non lascerò che il mio eroismo venga sminuito. Vi dico solo: mi sono scritta gli abbinamenti. Ho preso un quaderno e ci ho annotato tutto quel che c’era in frigo e cosa sarebbe stato bene con cosa, e che giorno era consigliabile mangiare la combinazione di melanzane e ricotta.
Quand’avevo vent’anni feci le prove d’intolleranza alimentare, una delle mille truffe di quando sei giovane e ti pare di non esser mai abbastanza magra. Mi dissero che ero intollerante al grano e ai latticini. Non sono mai stata sottile come in quel periodo. Non perché quei due alimenti mi facessero davvero male – o forse sì, ma non lo sapremo mai: ero magra perché digiunavo. E digiunavo perché è impossibile, è un insegnamento che mi lasciò quella formativa esperienza, trovare cibi che non contengano lattosio o grano. O almeno, così era allora, magari l’industria alimentare si è evoluta, all’epoca ero talmente stremata dalle ricerche, dalla scoperta che in tutti i biscotti dichiaratamente d’altri cereali una percentuale di grano c’era, che persino i wurstel contenevano lattosio, che facevo prima a digiunare.
Ecco, la mia settimana d’ordine è andata così: meglio il digiuno. Oggi m’andrebbe uno sfilaccio di porco col formaggio fuso e la cipolla caramellata, ma no: il quaderno degli appunti dice che mi toccano gazpacho e prosciutto. Tanto vale niente. Peccato abbia smesso di pesarmi da anni, chissà quante soddisfazioni avrei avuto dalla bilancia, prima che arrivasse mezzanotte del settimo giorno, la carrozza tornasse zucca, e io tornassi Schumpeter.